Se infatti in Mulholland Drive si poteva almeno tentar di sciogliere la contorta matassa interpretando la prima parte del film come un sogno della protagonista della seconda parte, in Inland Empire vorticano intorno ai nostri sguardi molecole impazzite, segmenti di storie privi di antefatti e di conclusioni logiche. Nebulose di narrazione collegate fra loro da indizi e simboli che t’illudono di star trovando il bandolo per ricostruire un senso globale dell’incubo, ma che ben presto si rivelano inevitabilmente fallaci, irridendo senza pietà i nostri poveri tentativi di ricondurre la non-storia nel campo della narrativa classicamente intesa.
Il film di Lynch, più che “post-human”, è “post-real”: non investe la definizione di cosa sia umano, ma è l’intera idea di “realtà” che viene messa in discussione ancora una volta.
Infatti, se in Strade Perdute era l’identità del protagonista e la sua storia che andava in pezzi, in Mulholland Drive è la distinzione fra la realtà del personaggio e la sua immaginazione di sé. Ora, in Inland Empire un personaggio dice una frase illuminante sul concetto di tempo: più o meno suona “vorrei svegliarmi un mattino sapendo esattamente cos’è successo ieri e cosa accadrà domani”. La citazione è a memoria, non testuale, ma è chiaro che il concetto implica la totale frammentazione della cronologia del racconto.
Ecco che gli attori, chiamati a girare il remake di un film incompiuto, si perdono in un labirinto degli specchi di scene del film stesso, situazioni vissute in passato dai loro precursori, vita vissuta e vita riflessa nello spettacolo, visioni proprie e visioni dello spettatore che li segue sullo schermo, in cui tutti perdiamo totalmente la bussola di un apparente thriller passionale, che forse s’è svolto un tempo, forse si sta per ripetere ancora… e forse è condannato a ripetersi in eterno, perché alla fine il cinema racconta sempre la stessa storia.
Inutile affannarsi a riassumere la trama di un film che trama non ha. Perché è chiaro che Lynch NON ha fatto un’opera con una storia “difficile”, che solo alcuni illuminati riusciranno a capire. Il regista ci illude (sadicamente!) di vedere un plot (per di più thriller!) ma ce ne toglie l’intreccio: gli agganci che legano le scene (la stessa ora, come in passato, la stessa situazione già vissuta, un numero, una frase scritta sul muro, delle iniziali…) sono solo sembianti, fantasmi d’intreccio, di una texture fra molecole in caduta libera e casuale combinazione.
Ecco perché Inland Empire è molto più che un film sulla “fabbrica dei sogni”, sul mondo del cinema o sullo spettacolo come metafora. È un implosione del concetto di realtà che abbiamo sotto gli occhi, un incubo senza risveglio filosoficamente molto più inquietante di Matrix o the Cube.
Un incubo di Kafka in una struttura da Joyce. Girato come sempre superbamente dal regista che più di chiunque al mondo sa generare l’inquietudine davanti a un corridoio scuro, a una porta socchiusa, a una stanza d’albergo squallida, un tavolino, un’abat-jour, dove pure non accade nulla ma noi restiamo in attesa di tutto. Un regista che riesce a trarre il massimo dalla “povera” videocamera digitale, spremendone penombre sgranate, tenebre indistinte, un grande impiego del fuori fuoco come espressione del disagio percettivo, dell’impossibilità di capire, di vedere il “dominio di R” bucando il sipario (come simbolicamente fanno più volte i personaggi nel film).
Grande performance di Laura Dern, in scena dalla prima all’ultima inquadratura, sempre più sfatta e disperata, con quella bocca storta che sembra un urlo di Munch anche se non dice nulla.
Tutti diranno che evocare un thriller e lasciarlo fluttuare nell’aria è ancor più sadico che costringere il pubblico a galleggiarci coi protagonisti per tre ore. Ma se si accetta la sfida filosofica, se si buca il sipario di Lynch, va da sé che il film potrebbe durarne due come dieci.
Secondo noi Inland Empire ha ottime chance per non superare la settimana di programmazione nelle sale, ma restiamo convinti che Lynch sia ancora uno dei pochi registi miracolosamente in grado di rischiare testardamente il tutto per tutto per spostare “oltre” le barriere del visibile.
Per questo pensiamo che fra trent’anni si parlerà ancora di questo (come dei suoi film precedenti), un po’ come il Chien Andalou (o almeno l’Eraserhead) dell’iniziale XXI secolo.
L’Impero di Lynch è “nuova carne per una nuova visione”, quindi posthuman al 100%!