"Sento tutto: lo spazio, l'aria, le vibrazioni, la gravità.
Sento ogni mia cellula, il sangue, sento il cervello..."
(Scarlett-Lucy nel film - citazione a memoria, e io sono ancora al 10%!)
Per pensar di fare un film che, in neanche un’ora e mezza, condensa Limitless (bello, recuperatelo se non l'avete visto), Kill Bill, Matrix, 2001 Odissea nello Spazio e Avatar bisogna essere un fottuto genio, oppure essersi fatti di roba bella tosta. Forse, per Luc Besson valgono entrambe le ipotesi. Infatti, Lucy (nelle sale italiane dal 25 settembre), sotto l’ossatura di un ipercinetico action europeo-hollywoodiano moderno, è un film dalle ambizioni sconfinate, nel senso più letterale del termine.
Ma partiamo dai fatti: Lucy (Scarlett Johansson, che si chiama come il più antico fossile del nostro progenitore australopiteco rinvenuto), la nuova eroina guerriera di Besson, è una studentessa sballona a Taipei. Si trova coinvolta suo malgrado in un tremendo traffico di CPH4, nuovissima droga sintetizzata da una spietata gang taiwanese che conta di far affari d’oro col suo smercio in Occidente.
Dove appunto Lucy dovrà portarne un pacchetto cucito nell’addome (foto sotto a destra). Purtroppo, un pestaggio lacera il sacchetto e la droga le va in circolo. Ma Lucy non muore per overdose, come sarebbe logico: le accade quel che nello stesso momento il professor Morgan Freeman sta spiegando in una conferenza accademica, ossia la teoria (contrastata, come leggete QUI) secondo cui noi umani utilizziamo solo il 10% delle potenzialità del cervello (meno dei delfini, che col 20% hanno sviluppato biologicamente il sonar).
Come Neo contro Matrix, Lucy ora supera la barriera del 10% che vincola il resto dell’umanità e, mentre Freeman lo spiega agli studenti, lei si fa rimuovere chirurgicamente il pacchetto tossico e sperimenta su di sé gli effetti della droga che scorre nel suo sangue: al 20% controlla le proprie cellule, ricorda tutto della propria vita fin dalla nascita, ha tutte le proprie conoscenze a disposizione insieme, poi inizia a leggere anche le menti altrui e impara qualunque concetto, incluse le teorie del Freeman, controlla le reti elettriche e parla con lui dal telefono, dalla tv e da qualunque apparecchio egli abbia acceso nella sua stanza.
Al 50% Lucy controlla anche la materia, sventa il traffico internazionale di droga teleconnettendosi con la polizia francese. Al 60% può controllare fisicamente le altre persone, disarma con la telecinesi i killer taiwanesi che la braccano per recuperare la preziosa droga, è ormai una specie di X-woman dai poteri di supereroina.
Ma l’abilità registica di Besson tiene in piedi la storia, sempre ad un ritmo forsennato, sfiorando in tanta azione (in cui è forse l’unico regista europeo a potersi permettere inseguimenti metropolitani e auto rovesciate da budget produttivo major) anche concetti interessanti (che si vorrebbe anche più approfonditi). Come ad esempio il fatto che, man mano che aumentano le conoscenze immagazzinate dal suo cervello, recedano le emozioni: "ciò che ci rende umani sono elementi primitivi. Ora io non sento più dolore, paura, ansia...", spiega Lucy a Freeman. Allora, sviluppare il cervello - l'organo che ha posto l'uomo al vertice del regno animale sul pianeta - ci allontanda dall'umanità? E come dovremmo allora definire quest'ultima?
Forse, come dice il filosofo Alberto G. Biuso nel suo ben più ponderoso saggio "La mente temporale" (Carocci, 2009), "la mente è tempo consapevole di se stesso" (pg. 174). Infatti, spiega Lucy al sempre più sconcertato prof. Freeman, "il tempo è l'unità di misura della realtà", senza il tempo non siamo in grado di percepire nessun ente concreto. Sembra che il filosofo abbia ispirato il cineasta, no? Sentite: "il tempo è la materia della quale è fatto il corpo" (ibidem, pg. 212). E sembra anche al diretto interessato, che infatti dice la sua QUI.
Ma - come dice sempre Biuso - "il corpo è una trama di tempo destinata a finire" (pg. 127). Quello di Lucy, dopo il potenziamento artificiale, anche più in fretta del normale. L'effetto della droga è infatti devastante e la sua nuova vita non supererà le 24 ore.
A che sarà servita allora tutta l’impressionante valanga di conoscenza da lei accumulata in pochissimo tempo, si chiede lei? “A trasmetterla”, risponde Freeman. Lo scopo più alto che può avere la conoscenza.
Risoluta quanto inarrestabile, Lucy lo prende in parola: mentre intorno a lei infuria la guerra fra polizia e mafia taiwanese, Lucy incontra Freeman e gli spiega il proprio piano. Dare vita a una nuova forma di biocomputer in grado di accogliere in sé tutta la conoscenza che la donna sta per acquisire una volta completato il controllo della propria mente, dandone chiave d’accesso proprio a lui, al saggio Freeman (il quale comincia peraltro a dubitare che l’umanità com’è oggi sia pronta a far buon uso di tutto ciò).
Raggiunto il 100%, Lucy viene proiettata in un caleidoscopico viaggio kubrickiano attraverso l’intero pianeta, la storia dell’umanità, dalla Lucy australopiteco alle origini della civiltà: il suo intelletto è junghianamente e olisticamente connesso con il tutto – come l’azzurro popolo di Avatar faceva con le radici dell’albero – e il corpo fisico della donna può definitivamente dissolversi. In cosa?
Bene, per questo vedetevi il film senza farvi svelare da me tutte le sue sorprese: per quanto fiabesco (o trash, a seconda dei punti di vista) possa parervi l’intreccio, la potenza visiva del regista tracima da ogni immagine e vi impedirà non solo la noia (impossibile con quel ritmo) ma anche di pensare se una soluzione narrativa sia prevedibile, banale, new age (e ce n’è) o troppo “hollywoodiana”.
Qualche esempio? Lucy “vede” le connessioni telefoniche, come fili colorati che salgono da ogni persona che stia usando un cellulare intorno a lei (foto a sinistra): visualizzata una foresta di connessioni, le sposta con la mano con gesto “da smartphone” per connettersi a quelle che le servono. E quando deve creare il super computer, si dissolve in una specie di Alien-Blob nerastro che ingloba in sé ogni apparecchiatura del laboratorio in cui si trova (immagine qui sopra a destra).
Banalità da fantasy? Pensatela come volete, ma tenete sempre presente che Besson è umano come noi, probabilmente sta utilizzando lo stesso 10% del cervello a nostra disposizione, quindi la capacità di visualizzare stati che egli ipotizza ma che non conosce più di quanto li conosciamo noi, è un atto creativo: puro, bello e buono. Buono o trash che noi lo si voglia giudicare, ma quando si lamenta che il cinema “non è più immaginifico come una volta” è questo che s’intende, ricordiamocelo sempre. E Besson qui ha davvero “creato un mondo” fantastico: un inner space ballardiano di cui non ci dimenticheremo presto.
Sembra inutile in un film ad alta spettacolarità con effetti speciali mirabolanti, ma un’interpretazione attoriale solida è l’altro punto di forza che può renderti credibile e appassionante anche la trama più inverosimile: e se il 77enne Morgan Freeman ormai è una certezza in qualunque ruolo di “vecchio saggio” un po’ malinconico che gli tocchi, la Scarlett Johansson post-Allen è una vera sorpresa. Si muove ieratica e monolitica un po’ come una Terminator donna dopo aver acquisito la “super-mente” che la pone così al di sopra di tutti noi (inespressiva come appare per tutto l’astratto e videoarty Under The Skin, l’altro notevole fanta da lei interpretato di recente).
Ma notate come trema e uggiola quando è ancora una studentella sfatta nelle mani dei truci mafiosi orientali dai modi alquanto spicci (geniale la giustapposizione con le immagini da National Geographic, che ci mostrano felini che ghermiscono gazzelle): è da queste trasformazioni che si vede l’attore con la stoffa, non solo dai monologhi shakespeariani.
Ammetto che con Besson mi ero fermato anni fa a Giovanna D'Arco. Ora comincio a pensare che forse mi ero sbagliato e che ho qualcosa da recuperare.
Mario G