Di fuoco e di ghiaccio
“And who shall I say is calling?”
(Leonard Cohen, “Who by Fire”)
Sono nato lungo l’Eufrate, in un villaggio senza nome molto a nord di Uruk.
Per noi era “il Villaggio” e noi eravamo “il Popolo”; gli altri erano semplicemente “gli Altri”, anche se vivevano a pochissima distanza da noi.
Quando io nacqui, figlio di un contadino, Uruk era forse soltanto un pugno di sporche case d’argilla, e Gilgamesh solo un mucchio di atomi non ancora aggregati.
Forse, perché vi capitai solo molto più tardi, tantissime vite dopo, quindi non posso saperlo con certezza.
Ma non importa.
Ho visto troppe cose per essere ancora curioso, sono colmo di nozioni, fatti, gioie e dolori che per la maggior parte non sono neppure miei e che premono su quel che resta di ciò che ero in origine.
Fanno male, questi ricordi, fanno male le urla delle persone che un tempo furono e che io ho sfrattato, persone che adesso gridano la loro rabbia nel mio – nel loro – cervello e nella mia anima, alcuni ormai da millenni. Gridano senza mai fermarsi, è una babele di voci che mi insultano in una babele di lingue, che mi maledicono, che mi augurano la morte.
La morte, già. Come se fosse facile.
Quante volte sono morto? Non lo so più, ormai.
Di morte naturale, di ferite, di malattia, annegato, bruciato, impiccato, fucilato…le ho provate tutte, ma ritorno sempre, ed è sempre un trauma come la prima volta.
Ero il figlio di un contadino, la prima volta.
Divenni contadino anch’io e morii sui campi ancora giovane, per mano di sbandati di passaggio. Se voglio, posso di nuovo provare il dolore atroce di quando le loro spade mi spaccarono il cuore e le carni. Devo solo cercare quel ricordo sotto tutti gli altri, e a volte lo faccio, quando ho bisogno di far tacere le voci nella mia testa.
Il dolore le azzittisce, è chiaro che possono sentire il mio come io sento il loro.
Morii con il terrore degli inferi: cosa avrei trovato dall’altra parte?
Nulla.
Non c’è niente, dall’altra parte - dalla mia parte, almeno - anche se ho dovuto attendere qualche altra morte per scoprirlo.
Quella volta, infatti, ritornai subito, nel corpo di un soldato: un essere spregevole, che aveva goduto nel torturare e uccidere e saccheggiare.
Lo presi che era assediato da gente che gliel’aveva giurata, che voleva vendicarsi, e io ero impaurito, sconvolto, disorientato e sentivo il suo terrore per la trappola in cui era caduto. Non capivo dove fossi finito, non sentivo un corpo attorno a me perché la sua volontà era ancora la più forte, era come se stessi nuotando in un oceano di melassa, cercando di arrivare a riva, e lui mi tenesse al largo con la forza della sua furia, mentre continuava a battersi contro i suoi assalitori.
Ma non poteva vincere, anche se lo avessi voluto – e allora non lo volevo.
Fu come liberarsi da un’imbracatura, come essere slegati dopo giorni di costrizione: un po’ di dolore e poi ebbi il controllo completo del suo corpo, che ormai era il mio, mentre lui divenne il primo della schiera di quelli che urlano nel caos della mia mente.
Durò poco, i suoi nemici erano troppi e le loro spade fecero scempio del nostro corpo.
Ci ritrovammo in un pescatore, chissà dove lungo la costa. Stava morendo anche lui, era molto anziano e mi scambiò per il suo dio, senza poter sentire il soldato; loro, quelli ai quali rubo l’esistenza, si accorgono di me ma non degli altri che mi porto dietro, né gli altri sembrano accorgersi dei nuovi arrivati.
Dopo il pescatore ci furono altri e altre, molti altri e molte altre, e ogni volta è andata sempre nello stesso modo: li ho derubati dei loro corpi, di tutti i loro ricordi e del loro futuro, dando loro in cambio l’immortalità e morendo subito dopo per ritrovarmi ancora in un altro corpo.
E il perché di tutto questo ancora mi sfugge.
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Urlano, urlano tutti, dentro la mia testa e fuori, fuori dalla mia porta blindata.
Li capisco, e se potessi sarei fuori insieme a loro, a urlare anch’io tutta la mia rabbia.
Anche se non serve a niente.
Il vantaggio della mia attuale posizione è che ho accesso a tutte le informazioni che voglio.
Mi è già successo molte volte, nel passato, ma finora non sapevo come sfruttare queste opportunità.
Adesso so, e anche se sono felice di liberarmi di questa maledizione… il mio cuore sanguina per loro, per tutti quelli che urlano fuori.
Non li amo, ma non li odio neanche al punto da volerli estinti.
Ho visto le loro miserie e la loro grandezza, ho vissuto in mezzo a loro per così tanto tempo… e ora il loro tempo sta finendo.
E anche il mio, o almeno lo spero.
Fui profeta, ai tempi in cui i profeti erano numerosi come le cavallette.
Una donna mi chiese com’era l’Aldilà, e se esisteva il regno dei cieli di cui parlavano altri profeti.
Non ebbi cuore di dirle che non c’è niente.
Quando abbandono un corpo, non finisco sempre subito dentro un altro.
A volte, per un tempo che non so definire e che forse non è nemmeno tempo, rimango in un posto che non è un posto.
Non c’è niente e nessuno, sono solo con gli “altri”.
Le prime volte fu come essere in una gabbia che non riesci a vedere, ma te la senti intorno e ti opprime.
Alla lunga, però, ti ci abitui e questa deve essere una costante della condizione umana, anche quando di umano forse non hai più niente: solo la paura, e il desiderio di morire.
Si può amare così tanto la vita e desiderare così tanto la morte?
Quando finisci dentro un corpo immobilizzato per sempre su un letto, coperto di piaghe da decubito, senza poter parlare o vedere…ecco un bell’interrogativo sul quale riflettere.
Lui era un ricco e vecchio commerciante del seicento, ridotto in quelle condizioni da un ictus o qualcosa del genere.
I figli e la giovane seconda moglie cercavano di corrompere il notaio per falsificare il testamento, ognuno a proprio favore e ognuno a modo suo.
Ne parlavano davanti a me, senza remore: il vecchio, per loro, era già morto quando ancora era sano.
La giovane moglie si concesse al notaio nella stanza del malato, nella mia stanza, e fu così deciso che il vecchio sarebbe stato ucciso la sera stessa.
Ancora oggi, è forse l’unico che non mi urli contro, dentro il cervello.
A modo suo mi è riconoscente, in fondo sono io quello che è stato soffocato da una mano sconosciuta; e poi, a ben vedere, gli ho dato gratuitamente quel che non era riuscito a ottenere pagando: l’immortalità.
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L’ultimo elicottero sta partendo adesso, con i nani e le ballerine.
Illusi.
Tempo qualche giorno e rimpiangeranno di non essere morti subito, ammesso che riescano a sopravvivere così a lungo.
I dati, che leggo e rileggo continuamente, non fanno altro che confermarmi che moriremo tutti.
Spero.
Anche i colpi alla porta sono cessati, ormai manca poco e forse staranno pregando, o scopando, o si saranno suicidati in massa. Potrei guardare con le telecamere che non hanno rotto, ma non mi interessa.
Quasi mi son pentito di aver lasciato andare le donne, avrei avuto almeno di che passare il tempo in modo divertente.
Del resto, servirlo fino alla fine non era ciò che volevano tanto?
Non ci sono più le Clarette di una volta, direbbe lui.
Beh, per essere precisi lui le sta chiamando in tanti modi, e non sono appellativi delicati e gentili.
A quanto pare era abituato così.
Il primo tentativo di suicidio l’ho fatto ben presto, dopo poche reincarnazioni.
Non è il reincarnarmi che mi sconvolge: sono gli altri, quelli che mi porto dietro. Il loro dolore, la rabbia che provano. E’ portarsi dietro un fardello di emozioni e ricordi che aumenta continuamente e che mi devasta.
Non so come ho fatto a non impazzire, è come vivere con un motore di aereo in testa, sempre acceso, e riuscire a distinguere ogni singola frequenza del suono che emette.
Ma suicidarmi non serve a niente, è ovvio.
Non un semplice suicidio.
Il primo indizio di quel che devo fare me lo diede una zingara che incontrai in un villaggio, nell’anno mille.
Le bastò guardarmi.
“Vuoi conoscere il tuo futuro?”, mi chiese.
“Mi interessa solo la morte”, risposi.
“Morirai di fuoco e di ghiaccio”, disse, e non seppe aggiungere altro.
Ho provato con il fuoco, lanciandomi nelle fiamme di navi incendiate, nei vulcani, in fucine metallurgiche…
Ho provato il gelo dei mari del nord, il dolce oblio delle tempeste di neve.
Mi sono dato fuoco sulla banchisa polare, per morire una volta per tutte come mi era stato predetto.
Tutto inutile.
E però continuavo a credere alle zingare, perché ve ne furono altre e tutte hanno detto la stessa cosa.
Dovevo solo capire cosa significava, sperando che un significato, benché assurdo, ci fosse.
Ma è tutta questa storia che forse è priva di significato, come insignificanti sono, viste dalla mia prospettiva millenaria, le vite umane prese singolarmente.
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Mi sono chiesto a lungo se la mia è una punizione o un dono, o se piuttosto non sono altro che lo strumento di una volontà superiore.
Non credo nelle divinità, e non credo ai demoni.
In tutti questi secoli ho capito che gli uomini non hanno mai avuto bisogno di esseri soprannaturali per crearsi il proprio, personalissimo, inferno o paradiso in vita.
Nascono, soffrono e muoiono, tutti quanti, con una sola eccezione finora: io.
Io che a ogni modo, quanto a sofferenza, ho battuto tutti quanti.
Non ero incarnato ai tempi del Cristo, e questo mi dispiace.
Avrei voluto vederlo con i miei occhi, avrei forse cercato di parlargli e capire cosa ci fosse di vero in ciò che è adesso il suo mito.
Avrei cercato di percepire in lui quel varco verso la salvezza che ho continuato a cercare per tutto questo tempo.
Avrei voluto conoscere l’Ebreo Errante, ma non l’ho mai incontrato.
Se esistesse, io e lui saremmo simili.
La stessa stanchezza del vivere, la stessa voglia di farla finita una volta per tutte.
Mille e mille storie da raccontare, se raccontare fosse ciò che ci interessa.
L’unica volta che sono stato un capo di governo mi hanno sparato.
E’ stato in un teatro, nel tardo 1800.
Mi ero appena reincarnato che arriva un tizio che mi urla contro “Sic semper tyrannis”, e mi spara alla testa.
Che poi Bruto non ha mai pronunciato quella frase, io c’ero.
Insomma, questa è la mia vera prima volta da capo di stato.
Certo, è uno staterello, una specie di repubblica delle banane senza più banane.
Di cosa pubblica non è rimasto molto.
Nemmeno delle bellezze italiane è rimasto molto, tutte finite all’estero nell’inutile tentativo di ripianare il deficit.
Ma gli italiani sono contenti lo stesso, a quanto pare.
Il governo, cioè io, provvede al soddisfacimento dei bisogni elementari: un pasto al giorno, l’accesso ai canali sportivi della rete mondiale e una consumazione gratuita al mese nei bordelli governativi.
In cambio non rompono le scatole ai governanti, cioè a me.
Quando ho preso il potere, il vecchio proprietario era intento nella sua attività preferita, star nudo a letto con giovani donne nell’attesa, spesso vana, che il viagra facesse effetto.
Erano passati già parecchi anni dall’ultima reincarnazione, quella in cui – per puro caso – ho capito quale sarà il mio destino.
Ero una persona qualunque, all’epoca, ma avevo un amico particolare, uno che riusciva a violare le reti informatiche meglio protette al mondo.
E lui trovò Mefisto: una cosa immensa, di ghiaccio, con un nucleo di roccia, che ci sta piombando addosso da prima che io nascessi.
Erano in pochissimi a saperlo, allora.
Due capi di stato, una decina di loro collaboratori.
Si pensava ancora che ci avrebbe solo sfiorato, anche se molto da vicino, senza far danni.
Invece i calcoli erano sbagliati, e Mefisto sta arrivando.
Mancano pochi minuti, e forse sono gli ultimi della mia esistenza.
Il mio amico di allora fu arrestato per violazione di reti governative, e morì in carcere.
Mi fece avere un ultimo messaggio, che io allora non riuscii a comprendere: “C’è molto di più, dietro”, diceva il suo biglietto.
Dietro cosa? Cosa poteva esserci di più importante o grande della fine di una civiltà?
Lui era sempre stato un paranoico, e comunque non era quello il primo dei miei pensieri.
Anche sfruttando le conoscenze rubate agli “altri” non potevo seguire la corsa di Mefisto o influenzarla, potevo solo sperare.
Per la prima volta sperai di vivere il più a lungo possibile, per non perdere l’occasione nel caso si fosse presentata; ma ci sarebbero voluti almeno trent’anni prima del Suo arrivo, e io ero già troppo vecchio.
E’ tanto che l’Uomo si chiede se è solo nel Creato, o se esistono altre razze.
E se anche a me qualcuno avesse detto, come all’Ebreo Errante: va e guardati intorno finché non torno?
Qualcuno che avesse previsto la nostra fine con mezzi che noi nemmeno potremmo immaginare.
Una razza di scienziati, per esempio, che ci consideri insetti interessanti da collezionare ma non tanto da volerci avere a che fare.
I corpi umani sono definiti, a volte,vere opere d’arte.
Ma che interesse possono avere per una razza aliena?
Una volta capito come siamo fatti dentro, cosa ci tiene in vita, come funzioniamo, insomma, non credo che rimanga poi molto di interessante nelle nostre anatomie e fisiologie.
E quindi… cosa potrebbero decidere di salvare di noi, questi fantomatici estimatori?
Forse solo la somma delle nostre esperienze.
Dovrebbero avere il contenitore adatto e selezionare gli esemplari con criterio, uno qualunque.
Finito il raccolto, basta andare a recuperarlo, abbandonando il contenitore ormai inutile.
Forse è questo che voleva dirmi il mio amico, che dietro Mefisto ci sono loro.
Una specie di Noè dallo spazio.
E l’Arca sono io.
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Nessuno ha capito perché io abbia voluto far costruire questo palazzo proprio qui, in questo paesino di montagna, devastato da un terremoto e a forte rischio sismico.
Nessuno, a quanto pare, si è bevuta la balla del “simbolo della rinascita di questa regione tormentata”.
E’ qui che sta arrivando Mefisto.
L’impatto spazzerà via il paese, la montagna e qualunque altra cosa nel raggio di 200 km.
La Terra si aprirà fin quasi al nucleo.
E’ qui che devo stare.
Sarà l’Apocalisse, e Mefisto la sua bestia.
Purché non sia il mio Falso Profeta.
***
Antonio Cotroneo inaugura con questo bizzarro e originale racconto 'fantamistico' una collaborazione con Posthuman che ci auguriamo duratura.
"Di fuoco e di ghiaccio" è a tutti gli effetti il suo primo racconto ad essere pubblicato, quindi festeggiamo un esordio assoluto.
Il Posthuman Staff gli porge il benvenuto, in attesa di rileggere sue visioni sulle pagine di NeXt.