Federica Fracassi emerge dal buio come testa tagliata del suo Jokanaan, “retta” (vedi foto qui accanto) dalle braccia di un manichino vestito dell’abito regale macchiato di sangue che rivela il suo crimine: aver concupito di passion puramente carnale il mistico Battista e, dal casto profeta sdegnata senza speranza, aver trescato perché la figlia Salomé ne chiedesse la testa al padre Erode dopo la celeberrima danza dei sette veli, che ha generato la lussureggiante (e lussuriosa) mitologia che – da un episodio marginale nel Vangelo di Marco – giunge sino a noi attraverso le opere di Massenet, Flaubert, Moreau Wilde & Beardsley, Strauss, Hindemith, Wagner, più una buona decina di film lungo l’intera storia del cinema, da Theda Bara a Rita Hayworth, da quella psichedelica di Carmelo Bene con Verushka a quella gay di Ken Russell fino all’ultima metateatrale di Al Pacino (di cui vedete qualche immagine qui e sotto ai lati dell’articolo). Un’immagine d’apertura molto forte, che sa quasi di Reine Margot di Chéreau.
Testori invece no, nulla di citazionistico nel suo dramma straziante e straziato ma un autentico urlo di disperazione: per lui l’icona della lussuria non è l’adolescente Salomé, nulla più di una bambola (e così in scena) manovrata dalla madre per spingere il marito alla condanna, bensì la matura Erodiade, frustrata nel suo lampo di passione crepuscolare e lasciata – come spiega il regista Renzo Martinelli – in una sorta di Purgatorio, ben rappresentato da quella specie di vetrina di boutique (con il nome Ero – Diàs stampigliato a rovescio come una diafania commerciale) posta fra noi (pubblico) e l’attrice, Federica Fracassi, sola in scena per l’intera durata dello spettacolo.
È il Purgatorio dei Tre Lai di Testori (con Cleopatràs e Mater Strangosciàs), quello di una donna “già agli inferi (…) che implora e dialoga con una testa mozzata”. Che all’inizio è lei stessa con barba posticcia (foto a lato), poi diventerà senza tanti giri di metafora uno scandaloso dildo di gomma a ben mostrare “di che randello” fosse pur dotato il concupito Battista. “Penso alla testa mozzata del Battista e pensando a quella testa lo immagino divorato, fatto a brani dalla regina così come le Menadi con Penteo. Penso a queste parti di corpo smembrate, numerate, laddove il Battista negandosi nella sua totalità, nell’unicità dell’essere corpo d’amore, si condanna ad essere per sempre oggetto (…): una dentiera, una barba finta on occhio di vetro”. Un sex toy per l’autogratificazione desolata.
“Il suo (quello di Erodiàs, invece NdA) è un corpo grottesco maschio/femmina che urla il desiderio, una presenza oscena che non si arrende al mutismo casto del Battista, alla sua sottrazione”, scrive sempre Martinelli nelle sue note di regìa. “Giovanni Testori ha dedicato a Erodiade più di un testo. Noi scegliamo Erodiàs, l’Erodiade spodestata, posseduta, che balbetta. Noi partiamo dalla rabbia che smangia l’essere umano quando si trova davanti al limite, alla finitudine, quando il discorso s’incaglia e resta solo la potenza del grido”.
Il grido di una donna che non avrà neppure l’onore dell’inferno per una passione adulterina goduta (come Cleopatràs), né potrà accedere alla luce del perdono di una Grazia che non è in grado di vedere, da parte di un “nuovo Dio” annunziato che non capisce. Che, se si è fatto anche lui carne, allora che Dio è?
Grido in cui giganteggia la prova attoriale di Federica Fracassi, che per oltre un’ora tracima in scena il torrente in piena della lingua barbarica inventata da Testori (ed erroneamente definita da qualcuno grammelot, che è altra cosa, per quanto simile): un selvaggio e raffinatissimo guazzabuglio di dialetto brianzolo, italiano anche aulico, latinismi, neologismi anglofoni e almeno un francesismo (“mon amour”!), spesso in strofe rimate, che per un attimo echeggiano Dante o Virgilio per poi rituffarsi subito nei vicoli della metropoli contemporanea con le sue volgari boutique urlanti promesse di seduzioni scontate, o fra le villette a schiera dei nuovi ricchi dell’hinterland e dei club vacanze.
“Attendere la lingua di Testori e il corpo a corpo con la sua anima di carne e sangue ha significato innanzitutto masticare le proprie radici linguistiche in tanti altri spettacoli fino a farne poltiglia. Stupefarsi ogni volta reinventando il Verbo”, dice la Fracassi medesima del suo tour de force nel Purgatorio rap testoriano, che rispetta fedelmente facendolo proprio per evitare di cadere nelle facili trappole dell'effetto comico cheap della cantilena che il ritmo verseggiato di diverse parti potrebbe consentire.
Una lingua poetica e personalissima, studiata e colta aldilà dell’apparenza trucida, in cui il cattolicissimo Testori plasma la propria ricerca inesausta di un Dio con il quale lui stesso in vita ha avuto profonde crisi e che i suoi personaggi bestemmiano per non riuscire a sentirlo. Motivo per cui l’autore è stato spesso accostato a Pasolini.
Da vedere senz’altro e per fortuna la tenitura (fino al 5 dicembre) rende l’opzione praticabile senza ricorrere a sedute medianiche.
Mario G