Like a true nature's child
We were born, born to be wild
(Born to be wild, Steppenwolf)
Se piangi, mi va bene
La mano della tua paura nutre il mio sangue
(Führe mich, Rammstein), dalla colonna sonora del film
Questo capitolo della vita con Jerome contiene gli ultimi episodi comici del film: la scena dei cucchiai al ristorante (con Udo Kier cameriere) e il siparietto coi due "negri" (foto a sinistra) che si disputano nella loro lingua africana la posizione di Joe in un “sandwich”, che però si concluderà con lei che se ne va quatta quatta con un nulla di fatto mentre i due continuano a battibeccare incuranti. Ma la crisi di questo nuovo tentativo della protagonista di assestarsi in una vita “normale” (dopo il lavoro come segretaria, una coppia classica con la nascita di un figlio) apre le porte al dramma: inizia la vera via crucis di Joe (d’ora in poi interpretata dalla stessa Gainsbourg narrante), madre anaffettiva (come lo era stata la sua) e moglie incapace di stare nel ruolo, cui lo stesso Jerome arriva a suggerire di riprendere il libertinaggio pur di recuperarne la passione.
E così sarà. Coi due africani inconcludenti, altri che non vediamo e poi col sadico K. (Jamie Bell, con la Gainsbourg nella foto a destra). La relazione masochistica con K. (provocatoriamente paragonata all’estasi del martirio tipica della Chiesa cattolica), la più lunga e dettagliata delle avventure di Joe cui assistiamo nel film, è intensa e dolorosa non solo per le frustate che la ninfomane scopre di desiderare avidamente, ma per il prezzo umano che paga per riceverle, che il regista ci mostra (staccandosi ancora una volta dai cliché dell’eros cinematografico patinato che nel film fa a pezzi a più riprese) in una delle scene più strazianti del film: Jerome scopre che per farsi brutalizzare di notte Joe arriva a lasciar solo il neonato (salvato di corsa mentre caracolla su un balcone innevato, come in un’anticipazione dell’incipit di Antichrist), quindi se ne va portandolo via dalla madre snaturata, che mai più lo rivedrà.
Nell’ultimo, maldestro tentativo di trovarsi un posto decente nella società degli uomini (di cui ha già stigmatizzato l’ipocrisia eretta a sistema di vita), nuovamente impiegata negli uffici di un’azienda, Joe si vede spedita a un gruppo di supporto psicologico per la sua “pericolosità” nei confronti dei mariti delle colleghe. Dopo un periodo di convinta auto privazione (foto a sinistra), si consuma però anche il suo polemico distacco dalla terapia e dalla psicologa, in quanto agente di “normalizzazione borghese” del diverso che lei sente di rappresentare, e l’orgoglioso recupero del comportamento socialmente deviante come un vessillo di anarchia.
Fieramente vestendo il proprio ruolo di reietta, la protagonista si cerca dunque un ruolo fuori dalla norma nella malavita, in cui – grazie al furbo ed elegante mafioso Willem Dafoe (foto a destra) – diventa finalmente una donna “di successo”: efficiente esattrice di debiti sporchi, Joe ha modo di valorizzare al meglio l’enciclopedica esperienza maturata sul campo in merito alle debolezze degli uomini.
Sotto il pelo dell’acqua di qualche situazione di humour nero che ci strapperebbe anche un sorriso, von Trier riesce però ad infilare anche un paio di situazioni toccanti, oltre che necessarie al compimento della via crucis di Joe, che si rivela tutt’altro che apatica nei confronti dell’umanità come ci sembrava: lo è solo per i “normali”, mentre saprà infatti mostrare intensa empatia per due personaggi che sente emarginati quanto se stessa.
Il primo è uno dei debitori escussi dall’implacabile esattrice, di cui con raffinata tecnica narrativa mette a nudo la criptopedofilia, salvo poi mostrargli commovente solidarietà (nell’unico modo che conosce), riconoscendo in lui un out cast maledetto, condannato dai suoi stessi desideri “inaccettabili” alla stessa croce di solitudine che porta lei. E in questo episodio il regista riesce anche a colpire (per primo, che io sappia, nella storia del cinema) l’ultimo tabù della nostra società: la presa di coscienza che “la pedofilia non è un fatto di quel 5% di persone che maltrattano i bambini, ma riguarda anche tutto quell’altro 95% che non lo fa e si limita a viverlo nelle proprie fantasie”, magari addirittura inconsciamente.
Il secondo personaggio è una ragazzina (Mia Goth, nella foto a destra e sotto a sinistra), emarginata in quanto figlia di famiglia disastrata, ideale secondo Dafoe per essere tirata su come spalla dell’abile esattrice. Joe ne diviene amica, pigmaliona, surrogato di quella mamma che per un figlio “normale” non sapeva essere, poi anche amante. Per lei conoscerà per la prima volta gelosia e persino desiderio di vendetta, quando scoprirà che la ragazza, ormai suo braccio destro, si è innamorata di un debitore… molto particolare.
Anche Joe ha scoperto allora che “l’amore è l’ingrediente segreto del sesso” (cfr. Volume I)? Forse, ma ormai siamo alla sua ultima stazione, quella che ci porta all’inizio del film, con la protagonista pesta nel vicolo. Però sul finale non possiamo diffonderci, perché ve ne rovineremmo il gusto obliquamente thriller, garantito dalla presenza di una pistola. Che, come ci insegna il decalogo della buona sceneggiatura, se compare nella storia è perché prima o poi (in questo caso dopo una divertente digressione tarantiniana su James Bond)… sparerà.
Poco prima di ciò, Joe annuncia l’ultima svolta della sua vita, che sembrerebbe chiudere il film in una chiave sorprendentemente “moralistica”. Ma quello sparo nel buio finale ribalterà ancora una volta le carte in tavola.
Comunque scegliate d’interpretare lo spiazzante finale della storia, tornando alla domanda chiave che ci ponevamo nell’articolo sul Volume I (ossia “quale sia il senso ultimo di cotanto opus magnum”), a visione completata emerge nitido il concetto che il comportamento sessuale sfrenato della protagonista (“ho preteso di più dal tramonto”) rappresenta una sorta di “disturbo alla mediocrità borghese”. Anche in una chiave apertamente femminista: commenta infatti Seligman che, se fossero due ragazzi ad andare a caccia di femmine su un treno (cfr. Volume I), nessuno ci troverebbe da ridire, così come se fosse un uomo ad abbandonare il proprio figlio inseguendo la passione per una donna diversa dalla madre.
Dal punto di vista filosofico, giustamente Biuso citava il pensiero “immoralista” del Divino Marchese, nel senso che il piacere risulta un altare su cui arde chi per averlo è pronto a bruciarvi tutto senza remore (la definizione è mia): ciò che Joe fa prendendo a calci amore e sentimenti, normalità e rispettabilità, carriera e amicizie, spirito sociale e istinto materno, amor proprio e persino istinto di conservazione.
Ricollegandoci poi alle numerose simbologie esoteriche e sataniche disseminate lungo il film (che si ricollegano direttamente al discorso del più volte citato Antichrist), va detto che anche la figura della “strega” storicamente perseguitata dall’Inquisizione era sovente una femmina dai comportamenti sessuali non in linea colla morale dell’epoca; ma nel film di von Trier il discorso – rispetto al rapporto femmina-istinto-connesione con la natura versus maschio-razionalità (che in fondo innerva anche il successivo Melancholia) – si fa più nettamente politico-sociale di quanto non fosse in Antichrist. Rispetto al quale Nymphomaniac è forse un po’ meno estaticamente pittorico (mancano i bellissimi paesaggi naturali), ma non per questo meno profondo e necessario.
Come dimostra, fuor d’ogni dubbio, l’imbelle stupidario prodotto a proposito di questo (se possibile, ancor più che sugli altri) film di von Trier da parte dei patetici maitre à penser della nostra stampa nazionale, dalla Aspesi su Repubblica a Fazio in tv. Utile unicamente a chiarire quanto, nonostante l’abbondanza di chiappette e tettine pubblicitarie, un autentico discorso sul sesso debba risultare tuttora destabilizzante per la nostra “buona società”, per cui va sterilizzato a colpi di pseudo distacco superiore condito di battutine ironiche.
Ciò che invece queste mediatiche nullità – come la più parte della cinecritica che ha scritto del film – trascurano è che, al di là delle originalità strutturali e narrative, delle bizzarre digressioni e dei colti paralleli matematici, musicali, naturali, pittorici, ecclesiastici ed occultistici, il film di von Trier resterà probabilmente come un unicum anche nella ricca e variopinta storia del cinema erotico.
Si è tanto parlato di porno o non porno, tagli e (auspicata) versione integrale, ma anche nell’attuale forma non ho letto invece quel che, quindi, proverò a mettere in evidenza qui: cioè che Lars rappresenta un “porno” fuori da ogni convenzione del genere, sia soft che (ancor più) hard. Non solo ci risparmia la più consueta iconografia del sesso su celluloide (tagli di luce, colori, inquadrature, visi di donne in estasi etc.), non solo non teme il primo piano sul pene, né la mitologia del “negro”. Non solo osa affrontare (come s’è detto sopra) tabù come pedofilia o madre che molla il figlio pur di godere un disperato, inappagante istante.
Ma, su tutto… avete osservato bene la sua attrice-musa? La Gainsbourg è un tipo interessante, sì, ma non una bellona, né il regista fa alcunché per offrircela più “vamp”. Viso acqua e sapone, capelli sciolti o semplicemente raccolti, abiti del tutto quotidiani, mai una calza a rete o autoreggente, un bustino, un reggiseno sexy (notate il look di tutte le donne persino nel quadro fetish della dominazione s/m)… in molti si sono sperticati ancora una volta sulla presunta misoginia di von Trier (una bestiata se pensate che da sempre rappresenta solo forti figure femminili), ma chissà se han fatto caso che nella sua rappresentazione del sesso è assente il bencheminimo orpello tipico dell’eccitazione visiva maschile?
Probabilmente non abbiamo ancora esaurito i molti piani di lettura del pornopus del Danese, forse non è possibile, comunque noi tenteremo la postumana sfida con un terzo, imminente articolo, che metterà a confronto un punto di vista filosofico con uno psicologico su Nymphomaniac. Restate connessi.
Mario G