Cosa puoi scrivere tu, umile pennaiolo, di un colosso come Chick Corea, che nel 1959, diciottenne, assisteva alle session di Kind of Blue dello storico sestetto di Miles Davis (“lì incontrai per la prima volta Bill Evans, da allora ho ascoltato il suo fantastico trio ogni volta che ho potuto”), e nel ’67 era già al fianco del divino col collega Herbie, per sperimentare il passaggio dal pianoforte alle tastiere elettriche? Che negli anni ’70 coi Return to Forever tracciava il solco della fusion, ma già nel ’71 con le Piano Improvisations (ECM) al pianoforte classico poneva le basi del concerto solo piano di sabato 10 al Conservatorio di Milano (sempre nell’ambito della rassegna JazzMI)? Ci sono personaggi la cui storia ti intimidisce ancor prima che tocchino lo strumento: il 77enne pianista del Massachussetts è uno di quelli, anche se – appena entra sul palco del Conservatorio, dove il suo pianoforte a coda è circondato da un semicerchio di sedie per un manipolo di fortunati che lo ascolteranno quasi standogli in braccio – il suo approccio è da subito cordiale e antidivistico.
Per nulla intimidito dall’austerità della sala-tempio della musica classica, Chick (foto a destra e sotto) parte “accordando noialtri” del pubblico (“il piano è già accordato bene”) facendoci cantare le note che lui accenna ai tasti, poi fonde nientemeno che una sonata di Mozart (l’Adagio della KV332) con The Man I Love di Gershwyn, come se le avesse scritte tutt’e due lui il giorno prima. Indi tocca a Scarlatti (sonata K9) finire riletto nel flusso del suo libero e limpidissimo pianismo. Segue un’altra fusione “blasfema”: la Mazurka di Chopin (“la sezione centrale”, ci spiega affabile, “Lento-ma-non-tchoppo”, dice nel suo buffo angloitaliano) in medley con Desafinado di Jobim, qualora qualcuno coltivasse ancora qualche steccato mentale fra generi musicali.
Se avete già letto le nostre riflessioni sul far rivivere i classici nel jazz, ecco, qui siamo alla libertà assoluta, in cui anche i grandi dei secoli passati perdono quell’aura museale accanto a Thelonious Monk o Stevie Wonder, quella che spesso allontana noi ascoltatori moderni ignorantoni dall’immergerci nelle acque profonde della musica cosiddetta classica. Accompagnati con sicurezza dalle mani di un pianista che sa suonare “classico” come pizzicare con le dita direttamente le corde del piano, traendone suoni da arpa amplificata come in una partitura di John Cage.
Dopo un entr’acte di una ventina di minuti – “il posto è fantastico, il piano è perfetto, mi riposo solo un pochino ma poi torno, eh” – effettivamente torna in scena, magro e in forma a dispetto degli anni, ancora più allegro e con la voglia di coinvolgere il pubblico nel suo flusso musicale a 360 gradi: prima celebra un altro grande amico scomparso, il chitarrista di flamenco Paco de Lucia con cui collaborò per The Yellow Nimbus nell’82, con una composizione propria intitolata Beyond the Nimbus. Poi si alza e porta una sedia da spettatori vuota accanto al suo sgabello alla tastiera. E ci spiega che, quando era bambino, uno dei rituali delle feste nella sua grande famiglia italoamericana era l’improvvisazione di poesia: quindi invita un paio di volontari ad ispirarlo sul palco; sale prima una ragazza sulla ventina, poi un ragazzo riccioluto, ogni volta lui chiede il nome, fa sedere il fortunato/a accanto a sé, li osserva intimiditi e… improvvisa la sua breve poesia sonora al piano!
Poi, torna a raccontare, c’era un altro rituale: strimpellare il grande piano a casa del nonno ma, siccome i bambini erano molti, spesso ne venivano fuori “delle jam session piuttosto a molte mani”; quindi invita altri volontari a suonare improvvisando al suo fianco. Hai detto niente. Si offrono quattro ardimentosi, lui li fa salire e uno ad uno accomodare accanto a lui alla tastiera per delle brevi improvvisazioni spontanee. Poi addirittura tutti e quattro insieme al “band leader” (“questo non lo avevo mai fatto!”) per ridar vita a una di quelle caotiche jam!
A questo punto, ci spiega d’aver anche composto negli anni ’70 anche un certo numero di “children’s songs” e ce ne vorrebbe riproporre qualcuna: ottima idea, anche perché chi non vorrebbe avere per sé una “bambineria musicale” come le concepisce Chick Corea? Per intenderci, niente Heidi o api-maie: qui siamo in un lirismo di temi sì abbastanza facili da orecchiare, con frasi ritmiche ripetute, ma pur sempre un’orecchiabilità d’altissimo livello, paragonabile a quella del celeberrimo Köln Concert del collega davisiano Keith Jarrett.
Applausi a cascate. Meritatissimi. Solo un vero grande può essere così semplice e diretto nel proporre frammenti di una Storia Universale della Musica, ciascuno dei quali incuterebbe timore reverenziale a chiunque. E avere ancora la voglia e il piacere di proporlo cercando ogni volta un dialogo diretto con il pubblico, pur non avendo più nulla da dimostrare da decenni ormai.
Non ha suonato sintetizzatori, Chick. Ma il pianoforte classico, sotto le sue dita, contiene già tutto.
Mario G
P.S.: foto del concerto scattate da Mario con lo smartphone durante i rispettivi concerti citati, ci scusiamo della qualità non perfetta delle immagini.