Per parlare approfonditamente di Watchmen, un articolo non basta: ci vorrebbe un saggio intero, come dimostra la voce dedicata al fumetto di Alan Moore su Wikipedia, che già ammonta a un’estensione da enciclopedia, senza peraltro arrivare al film diretto da Zack Snyder.
Il quale, a sua volta... Insomma, parliamo di quasi 3 ore di fantaodissea anti(super)eroica in cui il regista di Dawn of the Dead (remake) e 300 (altro colosso fumettistico) riesce (lui sì eroicamente) a condensare i temi principali della complessa serie di Watchmen, vetrioleggiando senza riguardi la storia recente americana, la volontà di potenza della superpotenza, il superominismo a stelle e strisce (“Dio esiste ed è americano”), il relativo anelito strisciante al revisionismo rambesco (in VietNam abbiamo vinto noi, l’Unione Sovietica ci teme…) e poi… la Guerra Fredda e la minaccia di estinzione planetaria, che evidentemente l’autore sentiva nell’aria quando scrisse la storia nell’86, al tramonto di quell’era (ma forse, oggi possiamo dire, non di quella paura, oggi ancora viva in altre forme). E... e...
In quest'analisi ci guida Irene Panzeri, la quale al "Modello dell'ucronia in Philip K. Dick" ha dedicato nientemeno che una tesi di laurea, sviscerando temi e stilemi del paradosso storico dickiano probabilmente più noto.
Cediamo a lei il microfono.
- E se, in un giorno imprecisato degli anni '40, qualcuno avesse avuto la bella trovata di armarsi di calzamaglia, maschera e brillantina e pattugliare le strade a caccia di criminali? E se altri ne avessero emulato le gesta?
No, non si tratta di una ronda padana ante-litteram, ma della comparsa di supereroi veri, in carne e ossa. E se a fine anni '50 uno scienziato fosse stato vittima di un incidente che l'avesse trasformato in un essere in grado di manipolare la materia? Ecco una dotazione di serie per un supereroe: i superpoteri. "Il superuomo esiste ed è americano", sostiene un personaggio del film, un giornalista, parlando dell'ex-scienziato, ribattezzato Dr. Manhattan. Se questi "guardiani", questi angeli custodi vegliassero su di noi, il mondo sarebbe migliore? Beh, secondo Moore e Snyder, autori, rispettivamente, del fumetto e del film, appena uscito nelle nostre sale, no. Anzi, saremmo messi peggio.
Moore ambienta Watchmen, la sua graphic novel, in un 1985 alternativo e la collocazione temporale è fedelmente rispettata nella trasposizione cinematografica. Chi ha contribuito a sbaragliare i vietcong? Chi è il vero assassino di Kennedy? Chi ha portato Nixon al potere per la terza volta? Perché non ci sono fiori nei cannoni? Chi è l'artefice della tragica escalation bellica con i sovietici? I supereroi. Assurdo, no? All'inizio della storia sono tutti in pensione forzata (banditi dal governo), ma, per mettere una pezza al casino, decidono di riesumare mantelli, gadget tecnologici e attillate tutine di latex, in una disperata corsa contro il tempo per scongiurare un'ecatombe nucleare di dimensioni globali.
Sin dai primi fotogrammi siamo catapultati in un universo distorto e distopico, che innesca inevitabilmente un confronto sugli eventi della nostra, "corretta" (?) linea temporale. Moore e Snyder esplorano praticamente l'unico genere letterario in grado di riflettere "in negativo" (non moralmente, ma nel senso di pellicola fotografica) ciò che è realmente stato. L'ucronia, o "storia alternativa". Uno dei pochi generi stranianti che di fatto parla della contemporaneità.
L'ucronia dal greco /ou/, "non", e /chronos/, "tempo", nasce, sia come termine sia come esperimento letterario, a fine 800. Non si afferma come genere a sé stante ma confluisce nella fantascienza, e più esattamente incarna la declinazione storica dell'idea degli universi paralleli. Sembra paradossale che l'ucronia, la storia che non esiste, votata al passato, possa incontrarsi con il genere che per eccellenza sviluppa narrazioni nel e del futuro.
Eppure se ci pensiamo bene la fantascienza è creatrice di mondi strutturalmente "diversi" da quello reale. L' elemento di scarto è sempre un'"idea" (plausibile, altrimenti avremmo il genere fantasy!), ma che in ogni caso esprime una proposizione condizionale, un "e se?" che non è destinato ad assumere alcuna collocazione temporale. Ed è questo "e se?" che, rispetto alla narrativa mainstream, stimola la creatività del lettore/spettatore, costringendolo a riflettere, a collaborare, a partecipare e scoprire qualcosa di più su di sé e sul mondo.
Ecco perché Watchmen scatena profonde riflessioni etiche, sociali, storiche, filosofiche, come solo la fantascienza sa fare. Riflessioni che in parte ritroviamo nella celeberrima ucronia di Philip K. Dick del 1962: The Man in the High Castle (di seguito abbreviato in MHC. In italiano La svastica sul sole, grazie a Dio ripubblicato con il titolo originale: L'uomo nell'alto castello). Guarda caso, entrambe le opere esplorano due "classiche" ossessioni del secolo scorso: se negli anni '80 si conviveva con la strizza per la bomba atomica, negli anni '60 non era ancora tramontato l'orrore per l'incubo nazista.
Il romanzo dickiano, ambientato negli Stati Uniti degli anni '60, racconta, nell'ambito di una linea storica alterata, le avventure di un gruppo eterogeneo di personaggi alle prese con il dominio giapponese della costa est. Il bivio storico si colloca nel 1933. In seguito all'assassinio di Roosevelt l'America non riuscirà a riprendersi dalla Depressione e soccomberà contro le forze dell'Asse (Giappone e Germania).
I mondi che raccontano Moore/Snyder e Dick sono speculari, entrambi sono "USAcentrici", ma in senso opposto. Nel primo gli Stati Uniti, grazie alla vittoria in Vietnam, sembrano avere confermato la loro vocazione di prima potenza mondiale. La faccia di Nixon sui manifesti disseminati per la città rappresenta il lato oscuro del sogno americano, che trionfa a spese di un'instabilità internazionale insanabile. Significativo a questo proposito lo scambio di battute tra i due supereroi Dreiberg e Il Comico alle prese con una rivolta popolare; il primo chiede cosa sia successo al sogno americano e il secondo laconico risponde: "Si è avverato. Lo stai guardando. E ora facciamo vedere a questi buffoni che facciamo sul serio...").
Nel mondo di Dick, in un paese notoriamente senza storia, gli invasori giapponesi sono avidi collezionisti di "cimeli" pre-bellici americani (per capirci: parliamo dell'orologio di Topolino, delle fotografie autografate dei divi hollywoodiani, ecc.), insomma l'iconografia che conosciamo fin troppo bene assorbe l'intera identità di un paese in ginocchio, in cui ogni tentativo di genuina espressione culturale viene soffocato.
Entrambi gli autori ci parlano degli Stati Uniti attraverso una lente distorta, presentandoceli come una parodia di loro stessi. Da una parte si assiste a una spietata operazione di riduzione a uno stereotipo duro a morire, il già citato sogno americano, alla sua estremizzazione nel delirio di onnipotenza e dominio, e, dall'altra, quando le icone si sostituiscono alla realtà, la riduzione si realizza attraverso l'identificazione degli USA con uno smisurato falso, un immenso simulacro turistico. Senza alcuna velleità "predittiva", entrambe le opere interpretano in modo molto acuto inquietanti tendenze, fin troppo attuali nello scenario reale.
Questo il contesto; ma non è altro che la "natura umana" - dice a un certo punto un personaggio di Dick a proposito di un libro che sta leggendo, un'ucronia nell'ucronia - a impedire il raggiungimento della pace mondiale. Anche quando le cose vanno bene, paura, sospetto e avidità sono in agguato. Attenzione, Joe sta parlando di un'opera di finzione, proprio come stiamo facendo noi adesso, quindi il messaggio è evidentemente rivolto a noi lettori. Dick ci dice che la "natura umana" è inevitabilmente imperfetta in qualsiasi quadro socio-storico di riferimento. L'universo reale non vale di più di uno solamente immaginato, date le stesse condizioni "etiche" che ne costituiscono le fondamenta.
In Watchmen la natura umana è "iperbolizzata", rappresentata nei suoi vari aspetti (una vera e propria carrellata di debolezze e virtù) dal gruppo di supereroi. Natura umana che Blake, alias Il Comico sembra aver perfettamente compreso e della quale si mette a servizio fino in fondo, stuprando, ammazzando, ingannando. Rorschach, il collega supereroe dai valori più granitici (anche se un po’ fanatico), dice: "Blake aveva capito. [...]. Vedeva le crepe nella società, gli ometti mascherati che cercavano di reggerla in piedi. Vedeva il vero volto del XX secolo e aveva deciso di diventarne un riflesso, una parodia. Nessun altro lo vedeva, per questo era solo". Il Comico è dissoluto perché è consapevole del fatto che per quanti delinquenti Rorschach sbatta in gattabuia le cose non cambieranno mai. Gli USA hanno vinto in tre settimane la guerra del Vietnam, ma inspiegabilmente tutto va comunque male, non c'è scampo. Ma perché paura, sospetto e avidità sono così strettamente legate alla natura umana e in ultima analisi all'affermazione del male sul bene? Vediamo che in entrambe le ucronie il male inevitabilmente emerge dalla contrapposizione, dalla diversità, dalla "differenza": tra nazisti, orientali e americani in MHC; tra americani e sovietici, persone "normali" e supereroi in Watchmen.
Le differenze non si ricompongono nelle due ucronie e il sistema non concede sconti. Chi non accetta il compromesso muore. Rorschach, una sorta di “antenato di Bertinotti” (o di Di Pietro, NdR), è l'unico tra i supereroi a non aver mai rivelato la propria identità e a non aver mai appeso la maschera al chiodo.
E quando il male è necessario a salvare gli equilibri internazionali preferisce soccombere piuttosto che essere complice di una immensa bugia, che farebbe ripiombare di nuovo il mondo nell'illusione di una falsa pace. Si accomiata con queste parole: "No. Neppure al cospetto dell'Apocalisse. Nessun compromesso". Ma non c'è posto per il bene assoluto, senza se e senza ma, nell'universo di Moore/Snyder, come del resto in quello di Dick, in cui, Tagomi, giapponese illuminato, con un gesto plateale si rifiuta di firmare i documenti di estradizione in territorio tedesco a carico di un ebreo condannato per truffa. A questo punto è colto da un attacco di cuore dal quale non è chiaro se riuscirà a sopravvivere.
Tagomi, buddista, soccombe anche perché i suoi riferimenti filosofici e religiosi (pensiamo al Tao, dove, molto riduttivamente, il male abbraccia il bene, non lo esclude), non sono più sufficienti a dare un senso al male assoluto nazista. Ma come si risolve una contrapposizione apparentemente insanabile? Surprise surprise, entrambe le opere non decidono il conflitto a livello cosmico, ma propongono un escamotage puramente narrativo per chiudere il discorso. In Watchmen i supereroi si fanno creatori di un "terzo nemico", così da costringere le superpotenze internazionali a rivolgere i sistemi di puntamento atomici verso questo terzo incomodo, invece di minacciarsi a vicenda. La catastrofe è solo temporaneamente evitata, le differenze non sono sanate, ma acuite, la natura umana non è mutata. Nella storia dell'umanità è sempre esistito un nemico, che siano individui singoli, gruppi sempre più estesi, nazioni, alleanze, fino, nella graphic novel in questione, all'estensione del conflitto sul piano cosmico, dove il nemico inventato è un alieno, mentre nel film il finale è leggermente diverso e il fortunato è il Dr. Manhattan, un'entità semi-divina.
MHC risolve il problema più drasticamente. Invece di immergere i personaggi in un'ennesima illusione globale, semplicemente scardina i presupposti logici dell'esistenza dell'universo descritto e catapulta i suoi eroi dritti fuori dal mondo fittizio stesso, rompendo la regoletta fondamentale del "patto finzionale", ossia la "logica" che sottende qualsiasi narrazione. L'operazione non è indolore, e scatenerà un attacco d'ulcera a più di un lettore, ma non gli preclude la vittoria del premio Hugo (a onor del vero, vinto anche dalla serie a fumetti di Watchmen). Nemmeno per Dick esiste una soluzione qui e ora, e non è cambiando un dettaglio dell’una o dell'altra linea temporale che i problemi del mondo scompaiono: lui vede sempre più in là, vede la soluzione "in alto", in un altro piano di realtà. L'ucronia di Dick è eretica, perché non parla di una storia alternativa, ma di una realtà alternativa.
In conclusione uno dei generi più evocativi della realtà contemporanea è reso magistralmente in questi due capolavori, che si piazzano a quarant'anni di distanza uno dall'altro. La trasposizione ucronica della vittoria dell'Asse o dell'esistenza dei supereroi è narrativamente stimolante per le implicazioni "avventurose", ma anche e sopratutto per le implicazioni, diciamo "archetipiche" che il topic del Nazismo e della guerra fredda veicolano. A contrastare il male cosmico/simbolico non si dispiegano però compatte le forze del bene. Questa sarebbe infatti solo un'altra distorta visione cosmica che né Watchmen né MHC abbracciano.
Tuttavia, i riscatti individuali non mancano né nell'una né nell'altra opera. In MHC, l'impotenza cosmica si stempera nell'esperienza di liberazione individuale di molti dei personaggi: Tagomi, Juliana, Childan, Frank, toccati tutti dall'"Inner Truth", dalla consapevolezza, che trascende il piano religioso della realtà alternativa per permeare la quotidianità di ognuno di loro.
Watchmen invece schiera i suoi supereroi, tragiche maschere, che non vincono né perdono, ma che grazie a una caratterizzazione superba, esplorano tutte le sfumature della commedia umana, le sue vie imprevedibili, come il "miracolo" che ha fatto sì che una creatura bella e buona fosse generata da Blake/Il Comico, che riesce in parte a illuminare di speranza il caos che ci circonda.
Ma se gli eroi non bastano, i guardiani non servono, l'eroismo del singolo esiste, e, se diamo retta alla tradizione ebraica, in fondo questo è proprio il motivo per cui Dio non distrugge il mondo. Per gli ebrei infatti, al mondo ci sono sempre 36 Giusti.
Tra i nostri Watchmen io non arrivo a contarne 36, ma forse uno sì.
E voi?
Irene Panzeri
PS: Posthuman ringrazia Irene per il suo contributo, augurandosi che questo debutto si trasformi in una collaborazione stabile.