“È un mondo tridimensionale allo stesso tempo vicino e lontano,
è una cosa impossibile e quindi non può essere illustrato.”
(M. C. Escher)
Arieccoci a parlare di fantamusica, anche ampliando il ventaglio dei generi al di là delle colonne d'ercole del rock propriamente detto. Si parte da lontano, lontano... da casa: Walter Tevis – l’autore de L’uomo che cadde sulla Terra da cui il celeberrimo film di Roeg con Bowie – scrisse il racconto breve Ifth of Oofth nel 1957. Noi italiani lo leggiamo come Ifth di Oofth nell’antologia Lontano da casa, edita da Urania (1162, settembre 1991, copertina qui a sinistra). E vi scopriamo lo scienziato Oliver Farnsworth che casualmente scopre la quarta e la quinta dimensione, cui attribuisce i due nomi di fantasia del titolo.
Era più o meno lo stesso periodo in cui l’incisore M. C. Escher realizzava le sue litografie Relatività (1953, qui a sinistra) o Belvedere (1958, a destra), basandosi sull’illusione ottica del cubo di Necker (che il cristallografo svizzero aveva ideato quasi un secolo prima) e dando vita pittorica a figure impossibili che meglio di mille trattati di fisica quantistica rendevano percepibili al nostro povero sguardo bidimensionale le insondabili profondità di altre dimensioni oltre quella familiare dello spessore.
Dimensioni che circa quarant’anni dopo avrebbero nutrito l’incubo cinematografico di Vincenzo Natali (Il Cubo, 1997) e ancor più il suo mediocre sequel Hypercube (Cube2, del 2002 di Andrzej Sekula, vedi fotogramma a sinistra), che postula la possibilità di spostarsi – attraverso la rotazione delle letali cellette cubiche – anche nel tempo (già ne scrissi nell’articolo Il simbolo dell’infinito in forma chiusa, sulla trilogia del Cubo, nel dossier Trap them and kill them!, Nocturno 166 del settembre 2016).
Come appunto nella figura geometrica per noi miseri umani inconcepibile di tesseratto, cioè un ipercubo quadridimensionale - peraltro inventato nel 1888 da un altro scrittore di fantascienza, Charles Howard Hinton (riproduzione a destra) - che Tevis nomina anche nel suo racconto, descrivendo appunto un oggetto “a forma di croce” composta da circa 64 cubi. Il successivo sviluppo del pentaratto, che coinvolge anche una non meglio precisata quinta dimensione, non ci viene descritto se non come “un’astrazione”, perché presumibilmente la nostra mente mai arriverebbe a visualizzarlo. Ma lo scrittore americano ce ne mostra le apocalittiche conseguenze per l’intero nostro pianeta nel beffardo finale del suo racconto.
Nel quale di musica non si parla affatto, pur essendo proprio la short story di Tevis la fonte ispirativa dell’ultimo album di Massimiliano Milesi (Oofth appunto, pubblicato dalla pugliese Auand, copertina in apertura), nonché dello stesso nome del quartetto che vi suona: oltre al leader al sax tenore, Emanuele Maniscalco al piano elettrico e synt, Giacomo Papetti al basso e Filippo Sala alla batteria.
“È vero, nel racconto non si parla di musica – spiega il sassofonista (a sinistra in uno scatto live) – ma la ciclicità temporale su cui si basa la dimensione astratta circolare di questo cubo pentadimensionale ha molto a che vedere con la sequenzialità del tempo nell’arrangiamento musicale, nel jazz come in qualsiasi altro genere di musica”.
“Sono da sempre un appassionato e un avido collezionista di fantascienza”, continua Milesi: “scovo vecchi Urania usati nei mercatini e ne accumulo (problema comune, NdA) più di quanti ne riesca a leggere. Tevis mi piace molto letterariamente, lo considero lo scrittore di s/f più vicino alla Beat Generation (forse anche perché era un alcolista anche lui!) e quel racconto poi l’ho letto anche in inglese, dove i due nomi di fantasia della quarta e quinta dimensione suonano (a differenza che in italiano) una specie di storpiatura delle altre tre a noi meglio note" (cioè “height”, “width” e “depth” nella lingua d’Albione).
Scoprendo una visione così approfondita della s/f letteraria, non abbiamo resistito a chiedere al musicista bergamasco se consideri il suo album una sorta di concept fantascientifico. “Sì, in un certo senso ogni album jazz, essendo basato sull’improvvisazione, si sviluppa a partire da un proprio concept. Infatti, anche se nel disco solo il quarto brano (Ifth, appunto, NdA) prende direttamente il titolo dal racconto di Tevis (foto a destra, NdA), in effetti ci sono altri sottili riferimenti (fanta)scientifici: ad esempio, Tibbish Tizzp (il brano più free del lotto, NdA) sono le bombe intelligenti in ebraico, un riferimento politico non frequente nella mia musica, ma che nel racconto potrebbe riferirsi agli ordigni nucleari che vengono scagliati dall’umanità contro l’enorme occhio cosmico verso la fine. Redshift (traccia 5, il cui giro di basso mi ha ricordato vagamente la T.N.T. dei Tortoise) è la definizione della luce emanata da una galassia vista attraverso un prisma: più la galassia è lontana, più tende al rosso (è il fenomeno che ha permesso di studiare l’espansione dell’universo); mentre Doppler (traccia 7) è il nome dello scopritore dell’omonimo effetto di variazione d’onda che appunto causa il redshift.
Poi, la Slide-Rock Bolter della traccia 3 è una creatura che scivola lungo le montagne, appartenente ai bestiarî fantastici delle mitologie dei cercatori d’oro americani. Mentre l’iniziale I have no words (traccia 1) proviene da un verso di Kenneth Rexroth, poeta appassionato di jazz come di haiku”.
L’album Oofth, per venire finalmente alla musica, è uno stimolante viaggio in un jazz moderno senza essere rivoluzionario, chiaroscurale e mai dissonante, che direi delicatamente psichedelico e memore del Coltrane del Supremo Amore e del primo Davis elettrico della Maniera Silente, anche se con articolate terminazioni nel jazz rock successivo dei '70 e nel già citato post rock più recente (ma io non riesco a togliermi dalla mente anche il suono un po' metallico di tastiera alla Jimmy Smith), sicché nell’era dell’hip hop dovremmo definirlo in un certo senso “classico”. Quindi in che misura questo idioma jazz può esprimere quel mondo fantascientifico?
“Beh, anzitutto attraverso delle citazioni esplicite, benché sottili: noi non facciamo un jazz rock estremo o totalmente elettronico, siamo in equilibrio fra sonorità elettriche – come il basso e il piano Wurlitzer – e quelle ‘naturali’ del mio sax e della batteria, che però vengono comunque sempre processate, anche se direttamente mentre suoniamo, cioè live in studio, attraverso pedali o sequenze di modulatori. Inoltre, accanto al piano elettrico abbiamo impiegato (o per meglio dire 'emulato') anche un paio di sintetizzatori, uno dei quali è il famoso Juno. Hai presente?”
Ehm… “Massì, è il synt usato da Vangelis nella colonna sonora di Blade Runner (del cui Love Theme tra l’altro ho fatto anche una cover solo sax e basso, anche se non per quest’album)! E poi, naturalmente, nelle citazioni di cui dicevo prima, che portano la musica in un prisma di riferimenti letterario filosofici che mi porto dietro dai miei studi oltre che dalle passioni di lettore-collezionista”, conclude il sassofonista bergamasco (sopra a sinistra in un altro scatto live by Giancarlo Brunelli, qui a destra in un ritratto vagamente... fantascientifico, all'interno del cd).
Una massa di riferimenti che indica una progettualità a lungo termine? “Sì, in realtà – come spesso accade – ho composto assai più brani di quelli che poi sono effettivamente finiti sul disco, quindi sicuramente Oofth avrà un… sequel, come si dice in campo cinematografico, e sempre a tema fantascientifico, anche se non è detto che si ritorni nuovamente sulla narrativa di Walter Tevis. Del resto, essendo Oofth anche il nome del gruppo… il cammino è segnato”.
Lasciatevi dunque trasportare nella quinta dimensione di Oofth: non c’è da temere che rappresenti (come nel racconto) la fine del nostro pianeta, ma piuttosto una... spazialità poliedrica in cui galleggiare sarà molto piacevole.
Mario G