Per Hollywood la crisi economica coincide quasi sempre con una crisi di ordine estetico; e se non è lecito parlare di crisi, lo sarà di certo parlare almeno di confusione, quell'incredibile senso di impotenza che coinvolge registi e sceneggiatori ormai a corto di idee o, al contrario, schiacciati tra l'incudine e il martello della produzione e delle esigenze di mercato. Non è (né può) essere un caso che ormai i mestieranti americani, anziché guardare a un proprio modello iconografico e rappresentativo, studino con entomologica complessità i lavori della concorrenza, rubandone più spesso di quel che sembra stilemi, fronzoli e cascami, e adulandone allora la bravura a mo' di raffinata citazione.
Così ecco il risultato, Il grande e potente Oz, un film di chiarissima impronta disneyana, prodotto da Joe Roth di Alice in Wonderland (2010) e con un James Franco, vecchia conoscenza di Raimi, qui nei panni del mago, ma con le fattezze spudorate di un Johnny Depp a rendere il plagio pressoché perfetto. Non è chiaro che ruolo abbia in tutta questa faccenda L. Frank Baum, l'autore dell'arcinoto romanzo “per bambini”, giacché la pellicola non è altro che un prequel del quasi omonimo capolavoro di Victor Fleming (1939), e delle atmosfere originali di film e libro non restano altro che delle ombre edulcorate, fatte di tanti effetti speciali, moltissimi combattimenti cappa e spada e pochissima originalità ad animarne il metraggio. Il metro di paragone è, appunto, l'Alice di Burton, che a sua volta era una volgarizzazione del lavoro di Lewis Carroll, e così come Mia Wasikowska si ritrovava vestita da Re Artù a combattere draghi e altre malvagie creature medievali, allo stesso modo il mago di Oz dovrà sconfiggere streghe cattive in astrusi corpo a corpo conditi di magia, palle di fuoco, scariche elettriche color verde smeraldo. Tipo Dragon Ball, per intenderci.
Il grande e potente Oz comincia in bianco e nero, esattamente come l'opera di Fleming, ed è ambientato in un Kansas provinciale e polveroso, dove il mago, Oscar Diggs, un ciarlatano donnaiolo e paraculo, dopo un numero finito male è costretto a fuggire dal circo in cui si esibisce; salito al volo su una mongolfiera con il suo immancabile cappello a cilindro e la borsa da prestigiatore, sarà vittima di un violento tornado, lo stesso che molti anni dopo trascinerà la piccola Dorothy nel reame fatato, e quando la spiraliforme turbolenza smetterà di soffiare, l'ormai ex-imbonitore da fiera atterrerà dalle parti della Città di Smeraldo.
Il film si tinge allora di colori lisergici e fortissimi, dal verde metropolitano al giallo zafferano dei campi e dell'oro di palazzo, dal rosso dei papaveri all'azzurro di un cielo sempre tersissimo. Nel magico reame, tutto è bello, lindo e cartoonesco. Qui l'uomo incontra la strega buona Theodora (Mila Kunis) che, credendolo il mago di un'antica profezia, giunto a salvare il regno dalla fattucchiera che lo affligge con scorribande e incantesimi nefasti, lo porta al cospetto della sorella regnante, Evanora (Rachel Weisz). La quale gli spiega che, qualora sconfigga la perfida strega che si nasconde presso la Foresta Oscura, Oscar potrà essere incoronato sovrano e disporre a proprio piacimento dell'immenso tesoro reale. Il nostro non se lo fa ripetere, e dopo aver sedotto entrambe le sorelle, parte per l'avventura della vita: sul cammino incontra una bambina di porcellana, a cui aggiusta le gambe spezzate dopo che un'incursione di scimpanzé volanti ha messo a ferro e fuoco il suo villaggio, nonché una scimmietta alata e perfettamente capace di parlare. Saranno i suoi alleati, almeno fino a quando la strega cattiva Glinda (interpretata da una bellissima Michelle Williams) non si rivela la strega buona, costretta all'esilio dall'iniqua sorella Evanora, in verità parricida e usurpatrice del regno.
Comincia pertanto un'epica battaglia tra il Bene e il Male, durante la quale l'abile prestigiatore rispolvererà vecchi trucchi e abusatissimi tranelli, assai in voga nel Kansas ma del tutto sconosciuti agli ingenui abitanti di Oz. Ed è così che, durante la perigliosa impresa, ritroverà le stesse persone che nella sua esistenza passata aveva umiliato e sbeffeggiato, dall'aiutante (la scimmietta alata) a cui aveva rifiutato l'amicizia, alla bella Glinda, amata di un tempo e promessa sposa, poi abbandonata per una vita scapigliata, fino alla bambina paralitica che non aveva potuto far camminare (la creatura di porcellana dagli arti fratturati). In questo mondo sottosopra, fatto di sortilegi e melefici, nanerottoli canterini e stagnini e belle sartine in costume bavarese, chiunque ha una seconda possibilità, che di sicuro Oscar non si farà mancare, dimostrando di essere un uomo infinitamente migliore di quel che molti ritenevano.
Purtroppo la lunghissima strada di mattonelle gialle che collega gli umili e fiabeschi villaggi al grandioso Palazzo di Smeraldo è costellata da tante, tantissime cadute di stile, che probabilmente il fruitore di bocca buona farà passare in secondo piano, ma che per un avventore con un minimo di naso appariranno stonatissime e oltremodo disdicevoli: il film è un continuo sgocciolio di momenti caramellosi, talmente pesanti da rischiare il diabete, così gonfi di buonismo di mercato da rendere la forma cinematografica pericolosamente obesa; si procede tra battute sciocche, situazioni ridicole al limite dell'insopportabile, personaggi di sicuro azzeccati, per quanto neanche lontanamente capaci di competere con lo Spaventapasseri, il Leone e l'Uomo di latta, ma che purtroppo restano vittime di una narrazione “a calderone”: ci butti dentro di tutto, lasci cuocere a fuoco lento e servi in scodelloni da servizio della nonna.
La ricetta avrà i suoi meriti, ma anche rispettando gusti e affinità tra le più varie, ne viene fuori un film superficiale, nonché un'occasione sprecata dell'altrimenti bravo Sam Raimi di apportare qualche novità concettuale al cinema fantastico o, nel caso specifico, di rileggere in modo interessante il sostrato narrativo che ne sta alla base. L'idea c'era, ma la competenza di combinare qualcosa di intelligente manca all'appello, forse perché a mancare è proprio la volontà del pubblico di lasciarsi stupire da un cinema che eluda la stupidità per farsi autentica magia, che rifugga il banale per divenire profondità di vedute. Invece il regista di Royal Oak appronta un macchinario tutto sommato tecnicamente sofisticato, ma nella sostanza ancor più fracassone della strumentazione a cui lo stesso Oz ricorre per gabbare il popolino, e tra rumori di grancassa, effetti in 3D totalmente gratuiti, quasi noiosi e per altro già visti, la pellicola diverte (forse) i più piccoli, lasciando chiunque a bocca asciutta e con un pruriginoso senso di inutilità per la testa.
A doverci trovare una morale, il mago di Oz rappresenta forse una metafora della politica spettacolare (tutta americana, ma anche tutta italiana), in cui non occorre mantenere le promesse, ma convincere il pubblico dell'apparente risoluzione dei problemi: lo scaltro Oscar non sconfigge le streghe con poteri taumaturgici che non ha pur millantandoli, ma con incredibili trovate tecniche in grado di somigliare così tanto alla magia da trasformarne le adulterate manifestazioni in espressioni divine. Elettricità, macchine, strumentazioni, la carovana del mago è tutta un tripudio di luci al neon, insegne, colori sgargianti che hanno quasi del catodico, e che su una plebe contadinotta e campagnola detengono lo stesso potere ipnotico delle nostre reclame pubblicitarie.
È così che viene incoronato re (dei creduloni), dispensando speranze, comunicandole nel modo corretto, mutando se stesso in un'icona ultraterrena in grado di sopravvivere alla propria morte (inscenata).
Di Raimi, di quel Sam Raimi che ci aveva stupiti con le aberranti, impalpabili follie di ben altri lavori, non resta nulla, tranne che la strega Evanora, divenuta vecchia e decrepita, e trascinata dai suoi alati famigli in un cielo illuminato soltanto da una spettrale luna piena.
Marco Marchetti