Fermare il treno / nessuno qui sa come si fa
le campagne fuggono dritte / sta aumentando la velocità
controllore controllore / cosa devo fare
metti che uno sente odore / della sua città
per esempio è in quel posto / che ho perduto la serenità.
(Ivano Fossati, La signora cantava il blues *)
Quando il treno è entrato nel cinema? Subito, dalla prima proiezione dei Lumiére, se ben ricordo. E poi non ne è più uscito, tra rapine al treno, assassinii sull’Orient Express e sconosciuti in treno… ma restringendo al treno come metafora, quello che troviamo nella canzone di Fossati che apre l’articolo? Vedendo Snowpiercer (locandina italiana in apertura), non riesco a non pensare a Il Tunnel, racconto (purtroppo mai divenuto film) di Dürrenmatt del ’52 (lo potete leggere QUI), in cui un treno entra appunto in un tunnel kafkianamente interminabile, dritto a capofitto verso la “fine del mondo”.
Mutatis mutandis, è un po’ questo il punto del film di Bong Joon-ho, quindi i suoi precursori strettamente filmici li vedrei più nell’A 30 Secondi dalla Fine di Andrej Končalovskij (QUI il trailer), dove il “runaway train” del titolo originale è senza guidatore e inarrestabile (e anche lì fra i ghiacci), oppure il molto sfuggente e letterario 2046 del giapponese Wong Kar-wai, in cui il numero 2046 è (anche) un treno in viaggio verso il futuro, ma da cui nessuno che l’abbia preso fa più ritorno.Ora però bando ai paralleli: bisogna innanzitutto dire che la matrice del debutto “multinazionale” del regista coreano (coprodotto con Francia e USA e coll’amico Park Chan-wook) non è letteraria né cinematografica, ma è la serie a fumetti francese Le Transperceneige (di Jacques Lob e Benjamin Legrand, ora in edicola in italiano per Ed. Cosmo, copertina e una tavola qui ai lati).
E, subito dopo, dire anche che, appena uscito nelle sale italiane dopo un’anteprima al Festival di Roma, il film è sicuramente (almeno ad ora) l’evento fantascientifico del 2014.
L’originale ambientazione futurferroviaria fra lande glaciali offre succulento scenario per un plot millenaristico, che intreccia il postapocalittico alla The Road, l’ecocatastrofe preconizzata dall’Esercito delle 12 Scimmie di Gilliam (mondo futuro congelato abitato solo da animali selvaggi) e il distopico politico sociale alla 1984 di Orwell (guarda caso, anche qui un John Hurt!).
Ma non sbaglia chi ci ha notato anche qualche cupa visione dal Soylent Green (in italiano 2022: i sopravvissuti) di Richard Fleischer, fino ai recenti Elysium di Blomkamp e popolarissima saga neogladiatoria di Hunger Games.
Joon-ho condisce il suo piatto con spruzzate di sarcasmo grottesco, perlopiù affidate alla cattiva e meschinissima funzionaria della “casta” Tilda Swinton (foto a destra - sentite il suo sublime discorso alla plebe “siate scarpe”!) e con numerose scene d’azione di violenza grafica (e cattiveria) tutta coreana: un combattimento all’ascia montato al ralenti mi ha richiamato inevitabilmente Old Boy (il combattimento nel corridoio col martello).
Ma la sanguinosa avanzata dei ribelli vagone dopo vagone offre altresì al regista l’opportunità di sorprenderci ad ogni apertura di boccaporti con un nuovo scenario (come avviene in certi videogiochi): dagli squallori meccanici fetidi della coda (nel bozzetto sotto a destra) alle imprevedibili carrozze orto, acquario, salone di bellezza, discoteca e così via: en passant, una discreta festa per gli occhi.
Infatti, il superconvoglio della trama, in perenne e inarrestabile circumnavigazione del globo ormai ridotto a un’invivibile era glaciale indotta da dissennati esperimenti umani, è rigidamente diviso in caste sociali impermeabili: in testa i ricchi cui nulla manca, in coda una plebe cenciosa e oppressa. La trama segue la rivolta della plebe alla conquista della motrice, sotto la guida di un leader carismatico (Curtis-Chris Evans, al centro del gruppo sotto a sinistra), sorta di “novello Neo”, cui però – una volta raggiunta (in ogni senso) la testa del treno – spetta più di un’amara scoperta. Sul suo mentore Gilliam (l’anziano John Hurt), sull’ingiusto ordine sociale che intende combattere e, in fondo, sull’intera umanità, in particolare su quella che siamo soliti ritenere una delle peculiarità che la distinguono dalle fiere: la capacità di vivere associata, in armonia e senza sbranarsi vicendevolmente nella logica del “cane mangia cane”.
Non vi posso svelare di più senza squadernare completamente tutto il sorprendente, tragico finale del film, che invece vi auguro di godervi per bene al cinema. Ma posso notare che, rispetto a chi ha parlato di “finale alla Matrix”, Bong Joon-ho si mantiene ben lontano dalla “kalokagathìa americana”: infatti (PICCOLO SPOILER TRAMA) Curtis non godrà come Neo di un’apoteosi finale come salvatore di una “nuova umanità”, sulla cui sopravvivenza anzi il regista ci lascia un finale drammaticamente aperto. Inoltre il personaggio, quando narra la propria storia poco prima della fine, ci fa capire di combattere un meccanismo che ben conosce dal di dentro, essendo stato a propria volta in passato un “cane che sbrana” (FINE SPOILER TRAMA) .
Ecco perché sposo in toto la definizione che ha dato del film l’amica Mariangela Sansone (cinecritica per Sentieri Selvaggi, Orizzonti di Gloria e Asian Feast), di “piccola dissertazione filosofica che si muove tra Hobbes, Nietzsche e Schopenhauer, in cui l'umanità segregata in un treno è metafora di un κόσμος alla deriva, che, forse, non merita salvezza”.
…Aspettando le colline / la signora cantava il blues
aspettando che in salita / rallentassimo un po' di più
…aspettando le colline / anche se non ce ne sono più
per gettarsi giù.
(*)
Mario G