“Forse l’unica differenza tra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto, colori più spettacolari e pastosi quando il sole arriva all’orizzonte,
forse è questo il mio unico peccato”.
(Joe in Nymphomaniac)
Parte alquanto letterario, con questo dialogo “platonico” fra i due (nel senso del filosofo, non solo che Seligman è l’unico maschio con cui Joe non scopa), forse un po’ troppo lento e rilassato per la situazione drammatica da cui sembra avere origine (che scopriremo nella seconda parte però). Ma del resto è pur sempre Lars von Trier: uno dei più lucidi, personali e profondi geni del cinema contemporaneo, ma di certo non uno che si straccia le vesti in nome del realismo minuto delle proprie sceneggiature. A lente volute, la storia prende corpo: prima con un’amica (sopra e qui a destra), poi da sola, Joe esplora pervicacemente tutti i piaceri e i dolori del sesso, con la dichiarata intenzione di goderne in totale “ribellione” contro l’amore o qualunque connessione con il sentimento, che considera solo una menzogna (“l’amore è lussuria più gelosia… disonestà, bugie…”, dice lei stessa), mentre lei dipende “dalla lussuria, non dal bisogno”. Anche quando la sua amica più sgamata (nelle foto ai lati la frenetica competizione "ferroviaria" fra le due) capitola con un ragazzo che le fa scoprire che “l’ingrediente segreto del sesso è l’amore”. Quindi, nei primi capitoli, Joe adolescente ha il volto imbronciato, quando non ammiccante (o altrimenti totalmente apatico), della giovanissima, adattissima e bravissima Stacy Martin (in primo piano a sinistra e nelle altre foto): la Gainsbourg interpreta Joe solo nel presente, quindi nel dialogo con Seligman. All’inizio gli esperimenti col sesso di Joe-Stacy non sembrano procurarle gran piacere; ma poi (cioè dopo una ragguardevole parata di peni, che il regista ci mostra come una serie di foto da libro di anatomia, sfondando il tabù di mostrare l’organo maschile in primo piano nel film), "mangiando", il suo appetito si fa vorace per non dire insaziabile. In una scena la protagonista racconta che in un certo periodo della sua gioventù, facendo una normale vita routinaria da segretaria d’azienda, arrivava a collezionare fino ad otto o nove incontri al giorno. Scene veloci, anche se esplicite, solo un paio di dettagli hard (si vedrà cosa offre in più la versione integrale di 5 ore e mezza con le famose controfigure porno per le scene di penetrazione, che fin qui latitano, ma sull'uscita in sala o hv di quest'ultima nessuna notizia ufficiale è ancora disponibile). Sono, queste, anche le (numerose) situazioni buffe – narrate col distacco entomologico di Joe adulta, a volte quasi grottesche – che il Volume I ci offre, illudendo l’ingenuo spettatore di trovarsi di fronte a una commedia d’autore, diciamo un Woody Allen più scollacciato, con qualche scena hard. In questo, il vertice è la scena della moglie tradita (Uma Thurman, bravissima), che va coi bambini a casa dell’amante del marito (Joe), per mostrar loro la miseria del padre: con punte davvero spassose in uno strazio che straccerebbe qualsiasi tentazione di scappatella in ogni uomo di questo mondo!
L’affilata regia del danese, intanto, ci impagina il tutto con la consumata, sorniona genialità che nulla lascia all’ovvio, anche nell’intimissima materia: inserti spiritosamente “documentaristici”, da video-arte o da filmati di divulgazione scientifica alla History Channel su pesca, alberi, peni (appunto), sulla sequenza di Fibonacci (sovrimpressioni grafiche sulla pellicola), l’armonia, la polifonia di Bach e il “diabolico” tritono, la morte di Edgar Allan Poe per delirium tremens… tutto quello che il “filosofo onnisciente” Seligman snocciola pazientemente ad interpretare pacatamente e intellettualmente ogni viscerale intemperanza della “folle Joe”, invece specularmente priva di qualsiasi profondità intellettuale.
Ma, lentamente, sotto la superficie ironica affiora inesorabilmente il disperato pessimismo vontrieriano: risulta sempre più evidente che il viaggio di Joe, più che una festa dei sensi, è in realtà il “viaggio al termine della notte” di una disperata solitudine. I suoi amanti sono solo un’iniziale, non scalfiscono la scorza dell’apatia della protagonista, che si rende conto di “come il mio corpo fosse pieno di solitudine e di lacrime”.
Verso la fine della prima parte, Joe ritrova Jerome (Shia LaBeouf), l’unico maschio della storia con un nome completo e con cui per capriccio non aveva scopato, quando lui – suo capo nel lavoro da segretaria – ci aveva riprovato, dopo esser stato il prescelto per sverginarla a 15 anni (atto svolto con brutale meccanicità, paragonata da Seligman alla serie di Fibonacci). Ma perché allora Joe si rifiuta a lui? Perché era l’unico che davvero le interessava? Non lo sappiamo, forse non lo sa neanche lei: quando si decide a scrivergli una letterina romantica lui è partito, poi si sposa e lei lo ritroverà solo molto tempo dopo, separato e pronto a farle scoprire “l’ingrediente segreto del sesso”.
Una parentesi piacevole, che sembra l’avvio della completezza, ma che si chiude (e con essa la prima parte) sul disperato lamento di Joe: “non riesco a sentire niente!”, che ci lascia presagire le ulteriori peregrinazioni nel sesso-senza-amore che trailer e anticipazioni già ci hanno fatto pregustare.
In conclusione? La domanda che gira nella testa è quale sia il senso ultimo di cotanto opus magnum, per quanto sia difficile esprimere un giudizio su mezzo film, il cui significato e segno complessivo ci apparirà solo a visione completa. Ancor più su un von Trier, che – al di là di scandalismi e furbizie strategiche – è sempre un grande regista, che non apparecchia certo un banchetto orgiastico di oltre 5 ore solo per stupirci con qualche scena hard (tagliata o completa che sia). E che, facendolo, vi stratifica sul cammino talmente tanti livelli di lettura (la storia e le originalità strutturali, le immagini come sempre bellissime, i simboli e le metafore; questi ultimi poi possono essere personali, psicanalitici, cosmico filosofici…) che offrirne un'analisi esaustiva sembra sfida inarrivabile.
Di certo, pur essendo il cinema del danese tutto una teoria di forti personaggi femminili, la ninfomane Joe è il terzo tassello della più recente trilogia di donne “tragiche” (nel duplice senso, quello comune di “sofferenti” e quello etimologico di legate ai riti pagani della natura e della fertilità da cui origina la tragedia greca), iniziata con la “strega” di Antichrist (sempre la Gainsbourg) e continuata con la Justine-Dunst dell’apocalittico Melancholia: in contatto con una natura incomprensibile alla ratio maschile (qui Seligman), inesplicabile, che si esprime in se stessa senza spiegarsi. La voracità della fica come manifestazione umana del “faggio cosmico”? Idea intrigante, anche se neanche questa interpretazione sembra ancora soddisfacente, dato che la sessualità di Joe è arida, non porta vita.
Pensando alla citazione del tramonto in apertura, ho trovato che forse la scintilla dell’opera balena in questa frase di Alberto G. Biuso (del quale QUI leggete la raffinata recensione del film, tra Spinoza e De Sade): “Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno”. Il filosofo catanese non l’ha scritta per il film di von Trier, bensì nella recensione della regia ronconiana del testo – pur sempre intitolato Pornografia – di Witold Gombrowicz (Theorein / Kairós).
La fica come un cannocchiale puntato verso la morte, che ci attende inesorabilmente fin da quando ne usciamo? Quando Joe sentenzia “forse stiamo tutti aspettando il permesso di morire”, il legame fra la disperata sensualità della donna e la tragicità del rapido sfarinarsi in nulla del nostro breve transito terreno mi è apparsa nettissima.
Ci ritorneremo presto: Nymphomaniac Volume II sarà nelle sale italiane dal 24 aprile.
Mario G