Spiazzante Emma Dante. Anche quando – o probabilmente proprio perché – smussa le punte più acuminate del suo teatro, celebrato proprio per il violento ritmo del gesto coreografico o l’uso altrettanto “fisico” di una lingua primitiva e brutale, mista di siciliano e grammelot.
In Io, Nessuno e Polifemo spiazza così: mettendo se stessa in scena, nel ruolo di se stessa (la donna di teatro) che intervista Polifemo come una qualunque giornalista, che parla addirittura in italiano “normale”. Con un testo assai più dialogato, magari fin troppo, in cui i riferimenti alla Emma Dante teatrante (anche spiritosi, col qui pro quo fra il suo cognome Dante e l’Alighieri della Commedia, con cui la confonde quel guascone di Ulisse) finiscono per risultare anche un po’ autoreferenziali e inutilmente didascalici, una specie di auto-saggio sul perché la drammaturga utilizza il dialetto, perché le piacciono Eduardo De Filippo, Dario Fo e Franco Scaldati, cosa hanno detto di lei alcuni critici e così via.
Le molteplici tracce vocali stratificate consentono alla musicista di evocare una Lydia Lunch techno, ambientazioni paesaggistiche pinkfloydiane per l’entrata in scena dell’agreste Polifemo e… una canzonaccia mélo un po’ da Fiorella Mannoia per Penelope, o una (volutamente) trashissima disco music per quel furbetto da balera che è in realtà Ulisse (Carmine Maringola, nella foto qui a sinistra con le sue go-go siren).
Abito nero, camicia bianca (come anche Polifemo e la Dante, del resto, vedi foto qui a lato), aperta sul petto muscoloso da burino di periferia, l’astuto “dal multiforme ingegno” è ridotto dalla drammaturga a una specie di super eroe da rave party, che “s’è shcopàto ammezz’Olimpo”, come dice lui in napoletano.
In napoletano? Ma certo, che lingua dovrebbe parlare un simile “guitto”? Del resto, anche Polifemo (Salvatore D’Onofrio) risponde in napoletano, contraddicendo il mito che lo vorrebbe di Milazzo (tranne quando gli scappa qualche frase in siciliano): perché “la storia è imperfetta”, spiega il ciclope, in realtà un mite pastore che viveva in armonia con la natura, finché il vero “mostro” re della menzogna non è arrivato a servirsi del suo desco non invitato.
Ma la menzogna è arte, ribatte il guitto del lògos, è lei che fa la storia e, se è ben congegnata, diventa persin poesia. E allora chi è il vero mostro, in questo mito senza eroi echeggiato fino a noi lungo tante voci poetiche, da Omero a Dante (massì, quello fiorentino), da Foscolo a Joyce, ma scritto – come sempre accade – dal punto di vista dei vincitori?
A voi l’ardua. Secondo me, alla fine non vince il teatro di Emma Dante, che – per seguire la sua citazione da Carmelo Bene – qui non arriva a rappresentare “un crimine”, ma tutt’al più a scherzarci sopra. E, nonostante un sacco di spunti più che interessanti (di cui QUI leggete la densissima analisi filosofica by Alberto G. Biuso), li annega nel vaudeville e in gag “alla Totò” (peraltro premiate dalle frequenti risate fra il pubblico, che ha preso d’assalto a tutte e quattro le serate al Parenti), che distraggono un po’ dal discorso di fondo; oltre che, va detto, nella recitazione della regista siciliana, sicuramente meno vibrante della sua lingua drammaturgica. Che comunque, a dispetto delle mie perplessità, alla fine incassa applausi a valanga.
Mario G