Il bambino, un “perverso polimorfo”. Parola di Sigmund Freud, padre ufficiale della psicoanalisi, e ottimo terreno di sperimentazione per una pletora di artisti visivi, letterari e cinematografici che sarebbe superfluo elencare (l’ultimo è von Trier in Nymphomaniac vol. II, NdR). Ma che succede quando le pulsioni deplorevoli enunciate dal più famoso strizzacervelli della storia incontrano gli incubi infantili di David Lynch, e tutti insieme strizzano l'occhio all'espressionismo sotto acido di Edvard Munch?
Chiedetelo a Silvia Argiolas, cagliaritana di nascita e milanese di adozione, che inscena un diabolico dramma della nevrosi famigliare in spazi allucinati, ambienti deformanti e luoghi siderali della quotidianità affettiva. È forse l'infanzia rubata (o l'innocenza perduta dell'adolescenza) il tema centrale della sua ricerca artistica, l'ossessione ricorrente, la cifra estetica che scandisce ogni opera su cui trovano rappresentazione incubi e incertezze dello sviluppo. Come un'Alice nel paese delle meraviglie lisergiche, la Argiolas dispone i suoi macabri compleanni a base di torte avvelenate, strane torsioni dei corpi, accozzaglie ansiogene di commensali all'interno di una cornice asimmetrica, infantile, sgargiante di colori venefici e tonalità da feretro. In questo mondo sottosopra un formichiere tinteggiato come un calzino (foto sopra a destra) allude all'esplosione di una sessualità pulsante ma acerba, bambini linguacciuti e cattivelli si trasformano in lunghi brucaliffi scaturiti da un Bosch versione anfetaminica (Non avrai altro dio all'infuori di te, 2011 foto qui sopra a sinistra); in boschi fertili, rigonfi di umidità gocciolante e superfici infestate da grappoli di radici, tumide crisalidi di umanità spuntano sotto il terriccio per dischiudersi in forme oblunghe, proporzioni disarmoniche, corrispondenze adulterate.
Tra le mostre più recenti tenute a Milano, ricordiamo la fondamentale del 2011 Season of the Witch (in collaborazione con Elena Rapa, galleria Antonio Colombo), e l'attuale Walk on the Wild Side - Conversion of Evil, esposta fino al 7 giugno scorso nel medesimo spazio, dedicata invece alle opere su carta: bambine piangenti, creature mascherate, giovanissimi diavoli che prendono coscienza della propria malvagità, e che torturano, pungolano, stuzzicano, crudelmente ambigui e ambiguamente maliziosi, le loro più inesperte compagne di gioco (locandina in apertura).
La pittura di questa artista è una grande festa di Halloween finita male, dove non ci si accoltella ma manca poco, e dove i piccoli mostri del quotidiano, chi giocando a fare l'adulto, chi maneggiando sgraziatamente un erotismo mortifero, irrequieto, persino onanista, crescono tra caramelle catodiche, rituali cannibalici (Dopo di me, foto qui sopra a destra), cerimoniali di iniziazione saffica degni di un campeggio estivo da filmaccio americano (La casa del piacere, 2013 foto qua a sinistra). Di sicuro il Lynch di riferimento è quello del primo periodo, da Six Figures Getting Sick (1966) a The Grandmother (1970) passando per le creazioni in pittura con le loro bocche spalancate, le propaggini da mirmecofago mutante, i personaggi burattineschi e impiastricciati: le stesse linee compositive della pittrice sarda, la medesima cura per la (de)forma(zione) delle figure, l'identico gusto per la metafora germinale. A questo riguardo, sono particolarmente rappresentative opere come I miei occhi parlavano con L.B. (foto qui a destra, 2012), Due corpi ragni (foto sotto a sinistra, 2013) o S. guerriera mangiata lentamente dai suoi amici (ultima foto a destra, 2012): l'affettuosa ma allarmante intimità con la dissoluzione è forse esorcizzata dall'attenzione ricorrente per la fioritura delle piante, ciuffi di primavera che spuntano dai rinvasi, garbugli di erbacce, corolle e parti molli. Il miracolo della vita, la bellezza della rinascita, il fascino della ciclicità stagionale sono soltanto la parte più luminosa di questo approccio all'arte, perché come insegna l'incipit di Velluto blu (1986), oltre ogni declivio sbocciato o sotto le zolle impregnate di un orticello casalingo, brulicano grovigli di creature sotterranee, vermi, ragni e insetti pronti a scavare spaventosi lombricai nella natura putrefatta che li circonda. Tutto marcisce, e tutto forse rinasce.
Sono bambine sperdute, quelle che ritroviamo nei boschi, ragazzine sviluppatesi troppo in fretta che anziché maneggiare pistole, droga e lamette (a questo già ci pensava Larry Clark, altro nume tutelare dell'Argiolas) preferiscono sbriciolare rancidi pezzi di mollica e tracciare un più o meno sicuro sentiero verso casa. Sempre nella speranza che il lupo cattivo non le azzanni alla gola, o spinga i loro corpicini precoci a sanguinare. Proprio come grumi di carne emaciata che palpitano e sussultano, spurgano liquidi, trasmettono raccapriccianti infezioni, gli spaesati protagonisti di questi drammi imparano gli aspetti più equivoci della maturità direttamente sulla propria pelle, subendone quella perversione dapprima soltanto sbirciata, agendola quindi sull'altro con la compiaciuta indifferenza di un entomologo.
È tutto più simile a una fiaba in salsa horror che a una parabola coming of age per educatori di scuola elementare; ma in fin dei conti, l'intera opera di questa artista non sussume che al grande timore della crescita, il terrore spettrale di divenire qualcosa di diverso da sé, che presuppone nuovi principi morali, cambiamento di gusto, assunzione di responsabilità.
Una splendida danza macabra con valore apotropaico, dove i vivi, più che ballare con i defunti, giocano con la morte per affacciarsi traumaticamente all'età adulta.
Marco Marchetti