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"Asylums with doors open wide,
Where people had paid to see inside,
For entertainment they watch his body twist
Behind his eyes he says, 'I still exist'"
(Joy Division, Atrocity Exhibition)
Nel 2001 la versione filmica diretta da Jonathan Weiss (e con musica di Foetus), fedelissima nella trasposizione della non-trama letteraria del libro, quindi estremamente glaciale e difficile da seguire, per lo sviluppo volutamente antinarrativo impresso dallo scomparso scrittore inglese a questo sua sorta di saggio sulla morte della storia e del senso nella società dello spettacolo (trovate il film di Weiss su dvd import Reel 23, di cui qui a sinistra vedete la cover).
Oggi, in chiusura di 2011, la drammaturgia teatrale sviluppata da Giuseppe Isgrò per Phoebe Zeitgeist con la collaborazione di Antonio Caronia, pontifex maximus della balladrianità in Italia e curatore delle sue opere nelle edizioni Fanucci: uno spettacolo che abbiamo visto alla prima presso lo Spazio Tertulliano di Milano, dove resta in cartellone - ardita scelta anti-festaiola - fino al (simbolico) 31 dicembre di quest'anno pre-apocalittico.
Una messa in scena che scarta intelligentemente la sfida di una (impossibile) resa naturalista del testo, offrendoci due attori - Andrea Barettoni e Francesca Frigoli (che vedete nelle foto riprodotte ai lati dell'articolo) - accompagnati su un palco spoglio dai noise elettronici di Giovanni Isgrò, dalla chitarra di Alessandra Novaga dalla voce registrata di Nicola Stravalaci.
Note per un Collasso Mentale è dunque un ardito lavoro, che ancora una volta affida a musiche avanguardistiche il compito di crearci un'ambientazione emotiva per la multistratificata e anticipatrice riflessione ballardiana sulla mediatizzazione della nostra società, la perdita di senso della storia e delle umane relazioni, l'erotizzazione delle icone pop che come si diceva sopra la società dello spettacolo ci presenta in totale orizzontalità semantica: bombardamenti di paesi lontani come paesaggi postmoderni delle nostre metropoli, immagini pubblicitarie come surrogati di desiderio e foto di dive come cartelle cliniche delle nostre piscopatologie sessuali.
Che i due attori in scena interpretano coraggiosamente sotto i nostri occhi, facendo l'impossibile per infondere con una recitazione brechtianamente distaccata e stentorea (scelta del regista) qualche appiglio emotivo alla fruizione di un testo empaticamente freddo come un tavolo chirurgico, privo anche di un protagonista certo (Travis-Talbot-Talbert cambia nome ed identità nel romanzo: medico o folle paziente o...?).
E ci riescono, magari con qualche eccesso grottesco, ma - da lettore che (ammettiamolo) ha sempre incontrato difficioltà ad arrivare in fondo al libro - devo dire che probabilmente la visione dello spettacolo dei multimediali Phoebe Zeitgeist contribuisce ad offrirci qualche mappa orientativa per affrontare uno dei testi più impervii (ancorché stimolanti) della narrativa apocalittica del dopoguerra (col già citato Pasto Nudo); mappe per districare i molti piani di senso intrecciati, che il suo autore ci ha pervicacemente negato, pur fra le molte (urbanistiche, mediche, tecnologiche) che sciorina lungo il suo cerebrale racconto.
Vedetelo, Note per un Collasso Mentale (video trailer QUI), rabdomanti dell'obliqua fantascienza, invece di cercare "qualcosa di diverso" solo a parole: ormai un capodanno così controcorrente è difficile da trovare, anche a Milano.
Mario G
Riteniamo comunque utile - per una visione certamente non facile - riportarvi qui di seguito una nota interpretativa a cura dello stesso Caronia.
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Come si fa a portare Ballard a teatro? E perché portarlo a teatro? Il Ballard più terremotante e insicuro che ci sia, poi, quello degli anni 1960, quello della sua fase più delirante e provocante, quello di The Atrocity Exhibition. Ammesso che ci siano delle ragioni per rileggere questo Ballard a quarant’anni di distanza, bisogna vedere poi perché tradurlo in movimenti di corpi dal vivo, in musica dal vivo, in video, in una scelta di parole (di Ballard) tessute dentro quei suoni, quei video, quei movimenti. Sono due problemi diversi, evidentemente, ma collegati.
The Atrocity Exhibition va letto (o riletto) e amato, perché è uno dei documenti più spaventosi e lucidi (e dunque belli) del breve e intenso momento in cui la nostra vita di ipermoderni o tardomoderni o postmoderni cominciò: gli anni '60. Sono la nostra data di nascita immaginaria, e quindi tanto più reale, quella in cui abbiamo cessato di essere dei soggetti “moderni”, in cui siamo sfuggiti a Joyce e a Picasso, al cinema visto su un grande schermo dentro una sala buia e alla drogheria sotto casa, alla grande fabbrica e al “territorio”, per entrare in un mondo tutto diverso. Il mondo della produzione just in time, del lavoro precario, dell’immaginario come forza produttiva, del rifiuto della politica, della tecnologia sotto la pelle, della nuova religione della comunicazione e della nuova categoria filosofico-scientifica della “informazione”.
Se molto di tutto questo (o anche la sua totalità) è venuto dieci, venti, trent’anni dopo, negli anni '60 era già in incubazione. E lo era perché si era definitivamente conclusa la seconda guerra mondiale; e le sue inenarrabili atrocità, da Auschwitz alla bomba di Hiroshima, potevano finalmente produrre le loro repliche farsesche (anche se altrettanto disgustose e perturbanti): l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il suicidio di Marilyn Monroe, il primo disastro dell’Apollo. L’insensatezza della storia era finalmente sotto gli occhi di tutti, non era più solo l’incubo privato di James Joyce.
Ballard lesse tutto questo per noi, e ci donò la sagra più acida e inquietante della desoggettivazione tardomoderna. In anticipo di qualche decennio sulla storia. Poté farlo grazie a un’acutissima sensibilità, a un’infanzia dolce e agiata sotto le ali del colonialismo seguita da un’adolescenza coatta ma protetta in un campo di concentramento, a un incontro con una cultura che parlava la sua lingua ma gli era incomprensibile, alla moderata esaltazione per i crazy years (gli anni '60, appunto) acremente e prematuramente infranta dalla morte della moglie. Poté farlo grazie alla sottile inquietudine che lo accompagnò per tutta la vita, allo sguardo mobile e sornione che quell’inquietudine gli regalava, a una tempra morale saldissima. Non si sopravvive più di cinquant’anni a Shepperton se non si dispone di un armamentario di questo genere.
Ballard è un autore di questo tipo. Fra i suoi testi, La mostra delle atrocità è quello in cui questa stratificazione è più complessa, affascinante e ingannevole. Sono almeno tre (ma forse di più) i piani nei quali è organizzato il sistema di immagini verbalizzate di questi condensed novels. C’è il piano (presunto realistico) della quotidianità dell’ambiguo istituto retto dal dottor Nathan, con le sue aule, i suoi anfiteatri, le figure di medici/analisti, studenti/pazienti, infermiere/amanti, e i loro movimenti stereotipati o imprevisti. Poi c’è un piano di immagini “esterne” (il poligono di tiro, le spiagge sabbiose, gli svincoli autostradali, le distese di cemento, le camere spoglie), location che rappresentano il teatro di azione privilegiato di Travis/Trabert/Tallis/Talbert per i suoi vagabondaggi, le sue evoluzioni sessuali con la signora Travis, con Catherine Austin, Karen Novotny e così via, i suoi ripetuti assassini rituali della moglie.
Paradossalmente, queste immagini altrettanto quotidiane, ma rese straniate dalle ambigue e ossessive intenzioni di Travis, sono quanto di più vicino alle tradizionali “immagini fantascientifiche” si possa trovare nella Mostra delle atrocità. Immagini quotidiane trasfigurate, verfremdet, trasformate in fantascienza da pure relazioni semiotiche, come le vie e le camere d’albergo di Parigi che diventano le strade e gli edifici di un lontano pianeta in Alphaville di Godard. In ultimo, c’è il piano delle immagini che sono diretta proiezione dell’immaginario psichico: minuziosamente descritte (come i kit di objects trouvées costruiti da Travis) o nascoste, e rivelate solo nelle note (come i dipinti di Marx Ernst, Salvador Dalì e altri).
Sono queste la proiezione più evidente della psiche di Travis: oggettivazioni paranoiche, tracce concrete e sapienti del suo processo di desoggettivazione. I legami fra questi tre piani di immagini Ballard li costruisce prevalentemente sul terreno del sesso, come quando (operazione altrimenti astrusa e incomprensibile) fa della geometria delle stanze o delle automobili un elemento dell’atto sessuale: “L’atto sessuale che consumarono diventò la frettolosa eucarestia delle dimensioni angolari dell’appartamento”.
{mosimage} Iconizzare tutti e tre (o anche solo due, o uno) di questi mondi di immagini sarebbe stata la scelta più facile, ma anche la più disastrosa, per uno spettacolo teatrale. Giuseppe Isgrò, con Note per un collasso mentale, non è caduto in questa trappola. Lo spettacolo di PhoebeZeitgeist decide di giocare le parole di Ballard, rimontate ma trascritte fedelmente, dentro e contro i movimenti degli attori, rinunciando radicalmente a “illustrarle”, o a costruirne lambiccati e inevitabilmente deludenti equivalenti visivi.
La parola ballardiana risuona tanto più cristallina e radicale quanto più è affidata a un registro recitativo risolutamente antirealistico, fatto di falsetti e di dichiarativi, di scarti e di differenze. Questa scelta coraggiosamente brechtiana, che sfugge al didascalismo proprio perché trasforma il corpo degli attori in didascalia (ma una didascalia anch’essa fuorviante, o straniata), è uno dei pregi maggiori dello spettacolo, costruito su un esemplare lavoro di Andrea Barettoni e Francesca Frigoli, che sfacciatamente non nascondono la fatica fisica e vocale, l’artificiosità delle torsioni e delle coreografie, ma fanno di tutto questo uno strumento espressivo sapiente e spensieratamente tagliente. Lo spettacolo non sfugge alla sfida di portare direttamente in scena il sesso, introducendolo anche là dove il testo non lo prevedeva. Il pezzo di bravura costituito dal coito davanti al pubblico, mentre Barettoni dipana i 16 elementi del kit “Karen Novotny”, costituisce (su questo piano) forse il clou dello spettacolo.
Rinuncia, dunque, a qualsiasi traduzione visiva degli ambienti, per lasciare il campo allo scontro fra il testo e i corpi degli attori. Isgrò ha tolto coraggiosamente dove c’era da togliere, e ha aggiunto dove (obliquamente) ci suggerisce ci sia da aggiungere. In questo senso una delle invenzioni più felici di Note per un collasso mentale sono le maschere di Giovanni De Francesco, aguzze architetture di capelli che nascondono il viso degli attori, ne filtrano subdolamente la voce, e inevitabilmente suggeriscono (in modo acutamente ballardiano) che il soggetto non sia descrivibile altro che come assenza. Nessuna “persistenza dell’immagine” può impedire allo spettatore di pensare che sotto quelle maschere liquide e ieratiche, una volta indossate, non ci sia che il vuoto. Su un piano opposto e complementare si muovono i visual di Francesca Cianniello, frammenti di sesso domestico e amatoriale pescati dalla rete in cui the real thing, l’organo sessuale nella sua crudezza, buca a tratti, improvviso, gli strati di mascheramento dell’editing digitale per ricordarci “di che cosa parliamo quando parliamo di...”. Neanche Internet c’era, ai tempi di Ballard: ma quale ambiente è più disperatamente ballardiano di Internet, oggi?
E tuttavia, tutti questi elementi sarebbero stati certo sufficienti a fare di Note per un collasso mentale uno spettacolo ben costruito e affascinante (nella sua “sgradevolezza”), una rilettura di Ballard insieme aderente e straniante, ma non lo spettacolo sorprendente ed emotivamente intenso che è. L’elemento che lo rende tale è l’aggiunta più semplice e insieme più estranea a Ballard che ci sia: la musica, e il modo (di nuovo) semplice e insieme rigoroso con cui Isgrò l’ha voluta inserire nello spettacolo. Perché altrimenti il sottotitolo dello spettacolo sarebbe “Partitura”? Non pensate che la presenza in scena di Alessandra Novaga, con le sue due chitarre alternativamente blandite dolcemente dalle sue dita e oltraggiosamente tormentate dal suo archetto sia un “di più”. Non c’è nulla di esornativo o di superfluo nella sua presenza. Novaga è il contrappunto discreto e silenzioso alle contorsioni dei due attori, alla corposità dei video, al divertente e tragico spessore delle parole.
È un equivalente visibile della voce incorporea di Ballard, che si insinua nelle nostre orecchie con le avvolgenti ma impeccabili registrazioni di Nicola Stravalaci. È la sapiente e ferrea regia dello spettacolo proiettata in scena. Sembra un’isola di saggezza in un mondo di folli. Ci promette la restituzione del soggetto cartesiano là dove impera la decostruzione più selvaggia e dionisiaca. E naturalmente, a ogni passaggio delude le nostre aspirazioni all’ordine e alla tranquillità.
(estratto dalla nota di Antonio Caronia)