Domenica ho visto un film dell’orrore. Non l’ennesimo remake americano de La Casa, Non Aprite Quella Porta, Carrie o Patrick (in arrivo). Nessuno splatter giapponese con geyser di sangue. Un film italiano. Ma nemmeno una di quelle stentate sottoproduzioni ultralow budget che il più delle volte arrancano nel sogno di rinverdire la golden age dei Bava-Fulci-Argento.
No, era un film mainstream, ben girato, interpretato da ottimi attori e tutti potete vederlo – solo a Milano – in una quindicina abbondante di sale. Perché, sciogliamo finalmente l’equivoco, si tratta dell’ultimo film di Paolo Virzì (in apertura la locandina, a destra e qui sotto gli ironici poster con frasi epigrafiche tratte dai dialoghi), regista di cui ammetto di non aver mai visto nulla, considerandolo esponente di quella “Italia dei carini” – la commedia buonista – che rifuggo come la peste.
Invece Il Capitale Umano, nonostante – o forse proprio per – il suo agghiacciante realismo, è riuscito ad inquietarmi più di molte case “a sinistra”, stregate o esorcizzate in POV. Sia ben chiaro (così spieghiamo definitivamente la provocazione iniziate): il film non ha nulla a che spartire col genere horror stricto sensu. Trattasi piuttosto di un anomalo “giallo” (liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Stephen Amidon), cui basta solo un morto per incidente stradale notturno da guida sbronza del sabato sera per dare il via ad un tragico carosello della meschinità: quella di un’umanità italica (italica, badate, mica solo brianzola) squallida e magliara senza redenzione (niente volemose bbene sordiano finale, per intenderci).
I fatti: un immobiliarista che se la tira ma non se la passa affatto bene (il macchiettistico Bentivoglio, nel poster qui sopra a sinistra) sogna di fare bingo entrando nel “giro giusto” della finanza che conta grazie alla figlia, fidanzata con il rampollo di un affermato raider della finanza d’assalto (Gifuni, bravissimo e glaciale, anche lui appeso a un filo, ma lo capiremo solo più avanti).
Mal gliene incoglie. Lo spremono come un limone e lui s’è giocato pure la casa, all’insaputa della compagna incinta (Golino), psicologa che nulla capisce del nido di vipere che la circonda.
Tutte oche ‘ste donne? No, la figlia di Bentivoglio (Matilde Gioli, nella foto sotto a sinistra) è l’unica colla testa sulle spalle: scarica l’odioso rampollo e si mette insieme allo scoppiato artista, reprobo del paese ma in realtà l'unico onesto della combriccola, solo troppo ingenuo. Perché il destino è in agguato: l’incidente notturno e le inevitabili indagini dell’ispettore Bebo Storti mettono in moto un carosello di coperture troppo corte, alibi zoppicanti e nefandezze sempre più evidenti, finché il machiavellico quanto fortuito colpo di coda del Bentivoglio alla canna del gas metterà tutto a posto. Cioè salverà i ricchi a danno dei poveri, perché così va il mondo: se stai ai piani bassi della scala sociale nessuno cercherà d’abolire leggi per le tue marachelle. E in questo guano calduccio alla fine ci si accomodano tutti, perché tutto sommato fa molto comodo.
Le patetiche polemiche campaniliste di un sindaco brianzolo offeso dal film hanno prevedibilmente fatto rumore (utile per il suo lancio), calamitando però l’attenzione della pensosa critica dei quotidiani italici unicamente sul profondo dibattito “la luna e il dito” (nella fattispecie, sono davvero meschini questi operosi brianzoli?). Impedendole di accorgersi che, en passant, il Virzì ha sapidamente strutturato il suo film con la tecnica del “flashback sincronico” usata da Kubrick per Rapina A Mano Armata (The Killing, 1956, QUI ne ripassate il trailer italiano): ci fa ritornare più volte all’inizio della storia, mostrandoci poi lo stesso arco temporale ma dal punto di vista di un altro personaggio (il film è diviso in 3 capitoli intestati a 3 personaggi più uno conclusivo che spiega il titolo), facendoci scoprire altri avvenimenti e sfaccettature ignoti al precedente personaggio. Struttura che a noi garantisce la suspense di scoprire poco alla volta cos’è davvero accaduto la famigerata notte in auto, favorendo anche lo svelamento progressivo delle psicologie dei caratteri (quasi tutti ben scolpiti) e delle rispettive miserie.
Un ritmo sostenuto e una sceneggiatura solida, interpretazioni (quasi tutte) convincenti, un’ironia che non sbraca mai nella commedia all’italiana più scontata, rendono Il Capitale Umano un pregevole esempio di quel cinema italiano che sa riflettere sul nostro becero presente ritraendocelo senza fare sconti a nessuno. E che credevamo non saremmo più riusciti a vedere in giro.
Io faccio la mia ammenda al regista Virzì, voi non perdetelo, di ‘sti tempi è merce rara.
Mario G