"Dio, questa non è una vita che meriti di essere vissuta.
Tu, laggiù, prima ci vomiti e poi ti senti meglio. Ma noi? Noi ci odiamo l'un l'altro, ci combattiamo invece di andare d'accordo. E tutto questo lo hai voluto tu, Dio.
Mettere gli uomini a conoscienza di verità che non sono in grado di sostenere.
Noi ci consumiamo nel fuoco mentre tu riscaldi le tue dita gottose su di noi.
Perchè devo sobbarcarmi tutto? Le sofferenze, i desideri inappagabili di tanti uomini?
Che cosa sono io? La tua rappresentante in terra? Una cosa che serve a rendere la città vivibile?
Per l'appunto una cosa, non un essere umano, una discarica in cui vuotare semi che non daranno frutti, dolori, afflizioni".
E' lo straziante monologo della prostituta Roma B. ne "I rifiuti, la città e la morte", bellissimo spettacolo fassbinderiano messo in scena all'Elfo nel '98 da Ferdinando Bruni e Elio De Capitani.
Street action e video sono pure legate a Fassbinder: nel suo testo "Il sangue sul collo del gatto", infatti, compare il personaggio fumettistico di Phoebe Zeitgeist. Rainer Werner ne fa un'aliena 'sociologa', planata sulla Terra per studiare l'agire politico degli umani (hai detto niente!), ma condannata all'afasia e all'incomprensione più totale, poiché conosce i suoni del linguaggio umano ma non i significati. Insomma, un simbolo d'incomunicabilità, per Fassbinder principale sistema di relazione tra gli uomini in quest'epoca.
Giuseppe Isgrò e il suo team PZT argutamente ribaltano la metafora su di noi spettatori attraverso lo spiazzamento: nei video (di cui ai lati vedete qualche still frame) un'attrice (o un attore) seminudo e coperto di bislacchi stracci siede su una poltrona piazzata in strada per ore (o fino a quando non viene cacciato dalla polizia), curiosando intorno a sé, senza parlare, recitare, né interagendo coi passanti. I quali però, passando, vedono eccome la "matta" imprevista (o il matto) sul proprio cammino. La performance non è annunciata né spiegata in alcun modo, sicché anche il cittadino medio metropolitano milanese, aduso alle più varie stramberie, non sa come decifrare la follia che si para davanti al suo sguardo.
E cosa fa, quindi? Si avvicina e chiede lumi? Ride? Chiama i vigili urbani? Cerca di parlare con l'attore o con altri passanti? No, nella stragrande maggioranza dei casi distoglie lo sguardo. Cancella ciò che la sua mente non è in grado di decodificare al momento.
Cancellare la realtà, se essa non s'inquadra nei nostri schemi mentali consolidati, questo è lo spirito del tempo (zeitgeist, per l'appunto): se almeno al TG3 regionale avessero detto "alieni nudi domani s'aggireranno per la zona X di Milano", uno se ne fa una ragione, chiama gli amici per fare una spedizione e curiosare magari... ma così, senza parole, senza didascalie, non può essere.
La realtà è sul display, come scrivevo qualche giorno fa nell'articolo sul Censore di Syxty, mica in strada.
La video performance di PZT (QUI una clip del brano 'La Modella' con Francesca Frigoli e Alessandra Novaga alla chitarra) procede all'opposto rispetto al testo di Neilson: mentre lì il Censore vede e dialoga con una donna che esiste solo nella sua mente deviata, qui abbiamo la mente normale che elimina dal campo visivo ciò che disturba il quadro d'insieme non lasciandosi spiegare logicamente.
In entrambi i casi, il percorso di sparizione della realtà (definizione coniata per lo storico Visioni di Solaris, sempre di Syxty, ma che funziona anche per il ballardiano Note per un collasso mentale dei PZT stessi) è il segno determinante. Forse il segno complessivo di questo tempo multimediale, globalizzato, postrazionale.
"E la città ci trasforma in morti viventi, personaggi da film dell'orrore anche senza esperimenti da laboratorio", grida Elena R/Roma B nel vuoto.
La società più ricca, aperta, informata, colta e scolarizzata, tollerante e abituata a "vederne di ogni" intorno a sé, ha saturato le facoltà di ricezione. Mettiamo decine di 'like' ogni giorno alle immagini più strambe o provocatorie con cui illustri sconosciuti ci bombardano da FaceBook, ma se una persona viva (pardon, in 3D!) ci compare davanti in strada paludata in maniera incomprensibile, non riusciamo a 'likarla', non ce la facciamo nemmeno ad esprimerle una banale domanda: hey scusa, ma che diavolo state combinando qui?
Abbiamo paura? No, siamo a Milano, in pieno giorno, non nelle favelas o sotto le bombe a Bagdad. No, il fatto è che c'è "troppa realtà" da assimilare per un cervello solo, il quadro d'insieme non si compone più.
Il quadro è quello composto dagli elementi che noi mettiamo su FaceBook. Comunica solo il nostro microcosmo privato. Lo likeranno ma ognuno ha il proprio.
La realtà è sul display. E' esplosa, rotea a brandelli intorno a noi. Nessun piano di controllo orwelliano, nessun mad doctor da fantascienza, nessuna Spectre che sia riuscita nei suoi propositi complottisti globali. L'abbiamo distrutta noi stessi, con gli strumenti della "libera comunicazione" offertici dal mercato per la "realizzazione del nostro potenziale individuale".
"Viviamo in zone di seconda categoria, le strade ci avvelenano, se mai c'è ancora qualcosa da avvelenare.
E non appena ce la spassiamo troppo arrivano mille dolori a metterci addosso la paura. E dietro ogni piacere si annida un sentimento letale.
Solo gli assassini si salvano, perchè la loro vita ha un senso: hanno fatto del loro meglio.
Io non vedo più nessuna ragione di sopporatre quel che mi mozza il respiro senza privarmene veramente. Bacio dei morti, gusto il sapore dei defunti, la putredine è il mio libro dei canti, la nausea è il mio piacere.
E se contro l'abisso cantassi l'ottimismo sarei una carogna che divora il cervello di scimmie viventi.
Ma non facendolo io stessa sarei divorata.
Dobbiamo essere come gli altri pretendono, altrimenti siamo perduti, ridotti a niente.
Io non voglio più vivere questa vita, Dio, voglio donarla, voglio essere sacrificata a questa città che ha bisogno di vittime per sentirsi viva. Ma lo faccio anche per salvare me stessa, per salvarmi da una morte in questa vita, che mi renderebbe uguale a quelli che hanno dimenticato cos'è la vita; ormai sordi, muti, si credono felici e dimenticano che non esistono.
E non vorrei essere come chi non ha i denti per farsi strada nella giungla.
Io abdico, Dio, taglio la corda, troverò qualcuno che vorrà darmi questa felicità".
"I rifiuti, la città e la morte" è un testo del 1974, era pre-informatica.
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