«Sinite parvulos venire ad me»
(Marco 10, 14)
Schiacciato da giudizi (forse fin troppo) stroncanti, il sequel del fortunato horror diretto da Scott Derrickson (qui produttore e sceneggiatore) è uscito nelle sale in settembre e ne è velocemente uscito alla chetichella. In attesa che Midnight Factory (lo spin off horror di Koch Media diretto da Gomarasca di Nocturno, che distribuisce The Green Inferno e promette, lodevole mission, di farci arrivare in hv alcuni film meritevoli e mai apparsi in Italia, come Amer e The Strange Colour of Your Body’s Tears di Forzani/Cattet) lo rilanci in dvd/br, gli dedicheremo qui qualche riflessione a parziale bilanciamento del male che appunto se n’è letto in giro (QUI un esempio).
Ovviamente, il misterioso demone sumero Bughuul, che da un’altra dimensione tracima nella nostra per sedurre bambini a sterminare le proprie famiglie e unirsi a lui in una sanguinosa “crociata degli innocenti”, è il trait d’union della saga, anche se come babau (qualcuno spiritosamente l’ha definito un incrocio fra Michael Jackson e un cantante black metal!) vince l’Oscar dell’elusività: appare non si sa come dagli schermi e nei riflessi sui vetri ma i crimini vengono poi perpetrati dai suoi piccoli fedeli, il che punta a generare in noi l’inquietudine più tipica del sottogenere “baby killer” (dal Villaggio dei Dannati ai kinghiani Children of the Corn, citati nell’inseguimento con falcetto nel campo di grano, fino all’inglese The Children, cfr. Nocturno dossier maggio ’14), più che di quello possessorio/esorcistico.
In verità, l’assenza di autentica paura è sicuramente uno dei punti deboli del film, anche se coll’attenuante che questo è un problema ormai endemico a gran parte dell’horror contemporaneo e forse proprio su questo dovremmo riflettere. Troppi sequel, troppi remake, troppi cliché? Intanto che riflettiamo, registriamo che in Sinister 2 i momenti più brividosi provengono dai filmini 16 mm delle passate stragi familiari che i piccoli fantasmi nottetempo impongono di vedere al giovane Dylan, promettendogli di superare così i suoi incubi notturni.
Se non vera suspense (le morti sono già accadute in passato quando le vediamo), c’è per certo della genuina crudeltà in quelle scene vicine al torture porn: famiglie arse in croce, appese come spiedini per alligatori, sepolte vive sotto la neve, trapanate su sedie da dentista (vedi foto ai lati dell’articolo) e – un clou che se l’avesse girato Fulci oggi sarebbe già scena cult – inchiodate al pavimento e squarciate a morsi dai topi in un rituale che… beh, vi lasceremo “gustare” da soli!
Ma torniamo agli incubi: Dylan, dicevamo, non sogna un Male sovrannaturale, rivede scene fin troppo reali e quotidiane nel suo passato recente. Un padre tutto terreno ma violento, che picchiava di brutto sia sua madre che lui e che ora non si rassegna ad averli persi. Ecco il primo degli spunti interessanti: allora è il male quotidiano che ci “marchia” irreparabilmente, rendendo il bambino più esposto alla possessione del demone?
Purtroppo, il regista Ciarán Foy non è la Marina De Van di Dark Touch, quindi Sinister 2 non diventa la nuova tragedia horror dell’abuso che forse avrebbe potuto essere. Anzi, curiosamente il regista sembra più a proprio agio nella rappresentazione della normalità domestica fra la graziosa mammina Shannyn Sossamon e il timido detective James Ransone (vice sceriffo nel primo Sinister), ambedue simpatici e credibili, qua e là esitanti… Lui cerca sinceramente di difendere la donna sia dal babau che dall’ex marito ricco e manesco; il quale, invece, appena riprende il controllo sulla coniuge e i due figli, trasforma subito la prima cena del ricomposto nucleo in uno psicodramma dell’oppressione casalinga. E persino il mite detective in un punching ball. Svolta un po’ frettolosa ma non infieriamo.
Anche perché dobbiamo occuparci del secondo spunto succulento del film: che emerge dal dialogo del detective con uno studioso del mito del Bughuul. Quest’ultimo infatti ha scoperto che la maledizione viene da lontano e attraversa tutta la storia dell’umanità, sempre con tre costanti: “una famiglia sterminata, un bambino scomparso e un totem rappresentativo; o un’offerta a tema, nella letteratura, nelle immagini o nella musica”. Ma allora – conclude rapidamente il detective-filosofo – “l’omicidio viene commesso attraverso l’arte…”. “L’osservazione estetica della violenza”, chiosa a sua volta l’acuto studioso.
Scoperte pure gettate in campo sbrigativamente e dialogo forse un po’ didascalico, ma l’idea è forte: i filmati di morte girati dai piccoli assassini non sono solo dei “piacevoli album di ricordi” dei piccoli mostri, bensì i totem offerti a Bughuul. Il quale appunto dagli schermi sbuca a raccogliere i macabri frutti della sua semina: ci pensate cos’avrebbe tirato fuori un Cronenberg da quest’idea di omicidio come estremo gesto artistico? Purtroppo Ciarán Foy, seda un lato non è Marina De Van, tantomeno è Cronenberg, quindi il suo film sostanzialmente butta via il succoso spunto senza svilupparlo, se non quando Zach (fratello più “duro” di Dylan) si prepara alla mattanza familiare, falcetto in una mano e videocamera nell’altra, proclamando “il mio film sarà il migliore”.
Sarà l’inevitabile terzo capitolo delle nefandezze di Bughuul – oltre che ad illuminarci un po’ di più sulla figura dello sfuggente demonio – a sviluppare più a fondo il concetto del video p.o.v. come “evoluzione dello snuff satanico-rituale” che questo numero 2 ci ha fatto solo pregustare ma lasciandoci l’acquolina in bocca (e pure diluendo la sorpresa che nel primo film veniva dall’inatteso bitter ending)? Speriamo: sarebbe bello chiudere la riflessione sulla paura latitante dall’horror mainstream in circolazione autosmentendoci con dita ancora tremanti sulla tastiera…
Mario G