Ne avevo già letto assai bene nel dossier “Alieni Cattivi” di Nocturno (N. 142, lug/ago 2014), poi nelle recensioni home video del Nocturno di ottobre, quindi nel ricco booklet introduttivo del dvd, a cura di Gomarasca/Pulici (demiurghi del catalogo di spaventi targati Midnight Factory), che opportunamente smuoveva paragoni importanti come il Polansky di Rosemary’s Baby e il Cronenberg delle mutazioni corporee). Per cui, paradossalmente, la visione del film mi è risultata una puntuale conferma di quanto ormai mi attendevo con precisione, più che la sorpresa che speravo. Ecco perché ho proposto a Marco di essere lui il recensore del film con occhi meno “viziati”. Cedo a lui la parola, quindi, scoprendo che concordo (quasi) interamente con la sua visione.
MG
Film strano, questo Honeymoon della trentacinquenne Leigh Janiak, esordiente dell'Ohio, che sfugge alla catalogazione, alla tassonomia, alle regole ferree del genere. Inizia come filmetto televisivo, quelle robe che danno su Iris in seconda serata, e poi vira, cambia, muta. Diventa una pellicola inquietante, piena di difettucci e asimmetrie, ma paradossalmente capace di colpire scavando sotto la superficie delle cose. La storia, per com'è ormai stata riportata da un'infinità di siti e riviste, è quella di due sposini novelli (Harry Treadaway, tormentato dr. Frankenstein nell'ottima Penny Dreadful e Rose Leslie, coprotagonista insieme a Vin Diesel del recente The Last Witch Hunter), che festeggiano appunto la luna di miele in una casetta sperduta tra i boschi. Per la prima mezzora è tutto uno stucchevole florilegio di baci, coccole e carezze, ma poi la ragazza comincia a fare la sonnambula, a parlare agli specchi, a perdere sangue dall'utero senza apparente motivo.
Lui si preoccupa, cerca di convincerla a tornare in città per farsi visitare da un medico, ma lei non ne vuole sapere. D'altronde sono in honeymoon. A complicare la situazione si aggiungono i vicini di cottage, una vecchia conoscenza della giovane e la sua compagna, all'apparenza ancor più fuori di testa. Che segreto nascondono, costoro? E soprattutto che cos'è che sta possedendo la nostra sposina, costringendola a mentire, a folleggiare, a girovagare senza meta al chiar di luna?
I temi di Honeymoon sono convergenti alle sue premesse, e seguono un'idea di cinema abusata ma abbastanza intelligente. Lo scopo non è stupire lo spettatore, ma perturbarlo attraverso le sue reticenze, le piccolezze, quei particolari forse inutili ma che alla fine tornano prepotentemente ad eccitare la nostra fantasia: la corda, usata per legare la moglie in un giochetto erotico, poi spiegata per immobilizzarne le membra attanagliate da un'inspiegabile e furibonda frenesia; la gita in barca sul lago, che si trasformerà presto in un calco più o meno fedele di Funny Games.
È tutto un crescendo di presentimenti, il sangue che gocciola sul pavimento del bagno, una specie di gravidanza che forse gravidanza non è, il tentativo della giovane di estirpare (o partorire?) quel feto che non si sa come mai le stia crescendo dentro... La regia gioca molto sull'ambiguità del caso psichiatrico, e in diverse occasioni il pubblico arriva a chiedersi se stia assistendo a una banale manifestazione di schizofrenia o se al contrario la mostruosità delle cose si palesi proprio nel modo in cui ce le stanno raccontando. In realtà è tutta una scusa per confondere le acque, perché Leigh Janiak sa bene dove vuole andare a parare, e cioè nel paranormale puro, nell'irrazionale, nel delirio metafisico di lovecraftiane creature dell'oltremondo.
La regista è bravina, bisogna riconoscerlo, ma è pur sempre una donna che gira come una donna. E qui vengono le imperfezioni. La nostra la butta sul mélo, si perde in sviolinate e strizzatine d'occhio, e la direzione degli attori ne risente in alcuni tratti in maniera piuttosto pesante. La biancheria intima di Rose Leslie, per esempio: davvero non si può guardare. In una scena di “sesso” mutuata da una fiction Rai, Harry Treadway le sfila le mutandine da sotto la gonna, ma quella furba della regista si dimentica di registrare l'atto, relegando il tutto oltre il bordo dell'inquadratura. E poi tutti quei dialoghi, quei bla bla bla pieni di retorica e marmellata che rischiano soltanto di far calare l'attenzione altrimenti abbastanza vispa. Ce n'era davvero bisogno?
Però il film in qualche modo funziona, e benché l'atmosfera generale ricordi spesso il bolso Wendigo (2001) del sempre sopravvalutato Larry Fessenden, la macchina da presa della Janiak si libra invece leggera tra i suoi personaggi, svelando cospirazioni, sotterfugi e inquietanti verità mai rivelate. È un film sulle luci notturne, Honeymoon, quelle che baluginano nell'oscurità suggerendo la presenza di terrificanti entità aliene. È un film sull'abduction, sugli incontri ravvicinati del quarto tipo, non certo quelli (geniali, NdR) di Milla Jovovich, ma insomma siamo di qualche tacca sopra il coevo Pod (2015) di Mickey Keating (con lo stesso Fessenden tra gli attori, tra l'altro).
Di sicuro avremmo preferito qualcosa come Progeny (1999) di Brian Yuzna, ma alle volte è anche bello accontentarsi della minestra.
Marco Marchetti