La caduta della società, delle istituzioni e delle convenzioni, segna il ritorno a uno stato barbarico dove vige la legge della sopravvivenza. Abbiamo letto e visto innumerevoli romanzi, produzioni cinematografiche e televisive che mostrano il mondo dopo il crollo dell’ordine costituito a seguito di guerre, carestie, pestilenze e devastazioni varie, ma raramente lo scenario è quello famigliare della nostra penisola.
A colmare questa lacuna è arrivata quest’anno la miniserie post-apocalittica e post-pandemica in sei puntate Anna (locandina ufficiale a lato), andata in onda su Sky Box Sets lo scorso aprile e quindi disponibile sul canale streaming Now TV e Sky Atlantic (come imposto dall’ormai dilagante predominio delle piattaforme online rispetto alla “pre-apocalittica tv classica”, NdR). Sembra inquietante che ciò sia avvenuto proprio nell’anno della pandemia ma solo di coincidenza si tratta, dopotutto sull’argomento escono film e serie in continuazione da sempre ma, per fugare ogni dubbio che la produzione abbia in qualche modo voluto cavalcare l’onda emozionale del momento, un cartello all’inizio di ogni puntata avverte gli spettatori che le riprese erano iniziate ben prima dell’epidemia di COVID-19.
Basandola su un proprio romanzo omonimo pubblicato nel 2015 da Einaudi (copertina a sinistra, NdR), la serie è stata scritta e diretta da Niccolò Ammaniti, autore che ha sempre cercato di apportare una particolare “sensibilità” ai generi popolari e che aveva esordito in televisione con un’altra miniserie fantastica, Il miracolo del 2018. La protagonista della storia è l’Anna del titolo (Giulia Dragotto), una ragazzina di tredici anni che si trova a destreggiarsi tra il proteggere il fratellino minore Astor (Alessandro Pecorella) e procurarsi il necessario per sopravvivere in una Sicilia devastata da un misterioso virus, chiamato “la Rossa” per via delle macchie che compaiono sulla pelle degli infetti, che ha annientato gli adulti, lasciando in vita solo i bambini. Fino alla pubertà, però, perché poi compaiono i sintomi della malattia e muoiono anche loro.
Fra campi arsi, ruderi di centri commerciali e città abbandonate di un’isola riconquistata dalla natura selvaggia e percorsa da comunità di bambini nei quali l’estrema libertà ha scatenano un desiderio di violenza, Anna ha come guida il quaderno con le istruzioni per poter sopravvivere in quel nuovo mondo, che le ha lasciato la mamma (Maria Grazia Zanchetta) prima di morire.
Incerta sulla situazione nel resto del mondo e con l’età adulta che implacabile si avvicina rapidamente, la ragazza deve prima liberare il fratello, rapito dalla comunità “Bambini bianchi e blu”, dal colore con cui si dipingono la pelle (blu i bambini più piccoli, bianco quelli più grandi, per nascondere i segni della malattia), che ricorda molto quella de Il signore delle mosche, e poi intraprendere un viaggio nella speranza di lasciare l’isola e raggiungere il continente, dove potrebbero esistere ancora degli adulti e forse è stata trovata una cura.
Ma prima dell’epilogo la storia di Anna s’intreccia con quella di altri personaggi, dalla terribile Angelica (Clara Tramontano), ex-bambina viziata e regina dei “Bambini bianchi e blu”, a Katia (Roberta Mattei), tenuta prigioniera da quest’ultima e chiamata la “Picciridduna” perché unica adulta rimasta in vita (cosa legata al suo ermafroditismo); da Pietro (Giovanni Mavilla), unico amico di Anna, ai disturbati e disturbanti gemelli Mario e Paolo (Danilo e Dario Di Vita), barricati dall’inizio della pestilenza all’interno del minimarket del padre.
Ammaniti, non nuovo a storie con protagonisti dei bambini, ricordiamo i romanzi Io non ho paura (2001) e Io e te (2010) portati sullo schermo rispettivamente da Gabriele Salvatores e Bernardo Bertolucci, non traduce fedelmente il suo romanzo ma esplora, amplia e in molti casi modifica diversi elementi della trama originale, eliminandone alcuni e aggiungendone altri. Mentre sulla carta la narrazione era Anna-centrica e poco era dato sapere al lettore sulle figure che man mano incontrava nel suo peregrinare, la miniserie si prende il tempo di approfondire alcuni personaggi e il loro passato grazie all’uso frequente di flashback. Tali modifiche non stonano ma anzi rendono la narrazione più equilibrata e appagante per lo spettatore. Peccato solo per la scomparsa di Coccolone, un cane maremmano con un orecchio mozzato che accompagna Anna nel suo peregrinare e che smorzava un po’ la tetraggine della storia.
L’atmosfera della miniserie si mantiene quindi sempre cupa e soffocante, da favola oscura e cruda, sconvolgente come solo una vicenda drammatica con protagonisti dei bambini sa essere. Bambini che hanno perso la bussola etica e morale rappresentata dagli adulti, se mai l’hanno avuta, vista anche la situazione da cui molti di loro arrivano. Vivono seguendo la legge del più forte. Non sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato, che le scelte hanno conseguenze, anche gravi. Si affidano alla violenza e alla tirannia dei più forti sui più deboli, perché è l’unico modo che conoscono per sopravvivere. Non cucinano e non si lavano, perché tra le macerie della civiltà trovano tutto quel che serve loro, incuranti del futuro e che prima o poi tutto si esaurirà. Tranne Anna: lei ha il quaderno lasciatole dalla madre come faro e a trasmetterle due imperativi: proteggere il fratello e sopravvivere, sempre e comunque, nonostante le terribili prove che dovrà superare e una situazione senza speranza. L’umanità è destinata a scomparire, “la Rossa”, oltre a ucciderli raggiunta la pubertà, ha reso sterili i superstiti, ma il finale regala allo spettatore il primo flebile e inaspettato messaggio di speranza per il futuro, nel romanzo quantomai incerto.
Le derivazioni e le fonti d’ispirazione sono palesi: dallo sconvolgente e già citato Il signore delle mosche di William Golding (1954, copertina a destra, NdR) all’angosciante La strada di Cormac McCarthy (2006) e relativi film tratti da entrambi i romanzi, finanche con sprazzi alla Mad Max, mentre il nome dato alla malattia sembra un omaggio al racconto La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe (1842).
Lo stesso Ammaniti ha affermato che per l’aspetto visivo e per il trucco ha preso ispirazione dal dipinto Giochi per bambini di Bruegel il Vecchio (del 1560, qui a sinistra, NdR) e dal film di Mel Gibson Apocalypto (2006).
Pur non apportando nulla di particolarmente nuovo al genere, la miniserie si fa notare e risalta, anche più del romanzo d’origine, grazie alla bravura degli interpreti, a una storia comunque struggente, a una buona dose di visionarietà e agli splenditi scenari naturali e architettonici della Sicilia (gran parte del girato è ambientato a Villa Palagonia, dalle parti di Bagheria), inediti nel genere post-apocalittico e finora quasi sempre usati a fare da sfondo a storie di mafia o poliziesche.
Roberto Azzara
P.S.: Posthuman porge il benvenuto a Roberto, fine saggista del fantastico cinematografico, che debutta con quest'articolo sul sito, aspettandolo presto con nuovi contributi.