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Come anticipato nel precedente articolo sul Festival, ora rubiamo il titolo a un vecchio film di spionaggio per riunire in un (personalissimo) fil rouge (di sangue?) tre film visti al Science+Fiction di Trieste e che ci sono piaciuti intensamente, nonostante si tratti di opere tanto personali quanto distanti l’una dall’altra che più di così non si potrebbe.
Fantasy storico medievale il danese Valhalla Rising, thriller psicanalitico surrealista il franco belga Amer, apocalittico road movie esistenzialista l’ispanico-americano Carriers, condividono dunque questo nostro spazio… perché? Solo per il nostro capriccio di riunire insieme le cose che soggettivamente ci piacciono? Forse anche, impossibile evitarlo. Però, riflettendoci, vi abbiamo individuato un (probabilmente casuale) atteggiamento filosofico che potrebbe in qualche modo apparentarli, al di là delle indiscusse differenze abissali in termini di trama, ambientazione, stile di regia e registri interpretativi. Si tratta di quella “eclissi del logos e della ratio) cui abbiamo accennato nel precedente articolo sul festival triestino.
Valhalla Rising
Infatti, nei primi due film della terna ci troviamo di fronte ad un silenzio pressoché assoluto: l’azione si svolge in entrambe le pellicole prevalentemente senza l’ausilio dei dialoghi e richiedendo a noi spettatori un maggiore sforzo per decodificare metafore e simbolismi celati dietro – per quanto riguarda il film di Nicolas Winding Refn – scenari cupi, brume barbare.
Il regista, a proposito del suo Valhalla Rising parla di uno Jena Plissken vichingo diretto alla Tarkovskij, ma il paragone che a me suona più calzante è quello con un Aguirre di Herzog in versione pagana.
Vi basti dire che il guercio guerriero protagonista non ha nome e non parla mai: viene riconosciuto come One Eye, dopo che il ragazzino che lo accompagna sempre – nulla sapendo di lui – lo presenta con questo nome inventato all’istante ad un gruppo di vichinghi cristianizzati, ai quali il duo si unirà in una tragica crociata disperata e suicida, cui il regista affida il senso di un apologo a favore del paganesimo e contro il cristianesimo (come spiega nela lunga intervista a Nocturno), o meglio contro le religioni istituzionalizzate in genere.
Schiacciati così da silenzi di ferro e nubi basse, ci tocca leggere la propensione di questi popoli nordici per un immaginario oscuro e minaccioso nei paesaggi bluastri foscamente desolati, nelle esplosioni improvvise e mai spiegate di una violenza che proprio per questo risulta realmente primordiale e viscerale, ctonia.
Come diversi film del conterraneo Von Trier – e del resto come Amer di cui parliamo di seguito – Valhalla Rising è suddiviso in maestosi quadri monotematici come una tragedia greca del gesto sanguinario, seguendo l’evoluzione della forza pagana (One Eye) dalla schiavitù alla vendetta, fino alla distaccata partecipazione alla crociata in Terra Santa che in realtà approda alle coste americane, dove anche il guerriero andrà incontro all’olocausto per mano degli indiani indigeni, per poi risorgere nell’ultima enigmatica inquadratura con l’occhio guercio sul lato opposto della testa rispetto al resto del film. Diverso e immutabile attraverso le stagioni dell’umana violenza.
Amer
Tutt’altro scenario in Amer di Helene Cattet e Bruno Forzani (di cui vedete la locandina vintage in apertura): una elegante villa rivierasca, in tempi moderni, clima solare, bei giardini. Ma il buio è nell’anima.
Ana bambina è terrorizzata dalla cameriera-strega (e da una madre mai affettuosa), si spaventa davanti al nonno morto, scappa in camera ma qualcuno la spia. Lei stessa scopre per caso i genitori che fanno l’amore (una scena erotica psichedelica come solo in Behind the Green Door), niente parole ma sussurri ovunque, rumorini della casa… il buio di una notte è pieno di minacce e “suspiria” per una bambina… o forse le vede solo lei?
Ana adolescente sta scoprendo il proprio corpo, i suoi piaceri e le sue attrattive. La silente passeggiata con la lugubre madre è un tripudio di dettagli corporei in macro, sonorizzati all’eccesso: vento che alza la gonna, mani che l’abbassano, passi sulla ghiaia, ancora trasalimenti. Ana attira lo sguardo di quei motociclisti da Scorpio Rising… deve passar loro davanti: è un ralenti drammatico come un duello al sole di Sergio Leone, e sempre muto.
Ana adulta torna alla villa sul mare. Ma lì c’è ancora qualcosa di strano. Qualcuno. Un killer con mani guantate e rasoio la spia ancora. La perseguita. È chiaro che vuole veder sgorgare da lei “profondo rosso”. Oppure il proprio piacere. O entrambe le cose. Ma chi è lui? E poi… c’è davvero?
Saggio d’ermetismo prossimo alla video art – e per questo rimproverato da alcuni (fra cui il giurato Castellari) di scarsa narratività (secondo noi il consueto pregiudizio per la narrazione non lineare) – Amer sfoggia immagini folgoranti, colori ipersaturi, psichedelie vintage in un montaggio straniante e acrobaticamente perfetto fra soggettive e dettagli ingranditi, resi “parlanti” da una selva di rumori, voci d’ogni gesto, iperrealisticamente amplificati e sincronizzati col versante visuale con perfezionismo maniacale, che riescono realmente a “farci sentire” nello stomaco ogni variazione d’umore, ogni occhiata in tralice, ogni trasalimento della giovane protagonista.
Voci dell’anima oltre ogni parola, alla faccia del cerebralismo e del citazionismo (pur presenti) che scommettiamo saranno gli unici tasti che si toccheranno a proposito di questo piccolo capolavoro sperimentale. La cui anticonvenzionalità ve lo renderà di difficile reperibilità, finché fra 20 anni qualcuno comincerà a parlare di “nuovi Kenneth Anger incompresi” e allora giù elogi postumi…
Carriers
E siamo a Carriers, film americano ma diretto dai fratelli Alex e David Pastor (spagnoli). I “portatori” del titolo (di cui qui a sinistra vedete il poster) sono i contagiati di un misterioso virus che sta sterminando l’umanità, al quale i quattro protagonisti (due fratelli e rispettive fidanzate) tentano di sfuggire viaggiando in auto per il deserto, diretti alla casa sul mare dove passavano le vacanze da piccoli, sperando che allontanarsi da ogni contatto umano aumenti le loro chance di sopravvivenza.
Non è facile come dirlo. Ad ogni stazione della via crucis qualcuno morirà, qualcuno sul loro cammino (mors tua vita mea) o magari qualcuno di loro.
Ogni tappa rilancia il quesito morale: cos’è meno terribile, rischiare la vita per mantenere vivo un barlume di “umanità”, o blindarsi nel cinismo dell’homo homini lupus per salvarsela ad ogni costo?
Ogni passo, un gradino più in giù verso gli inferi della barbarie assoluta (la lotta senza quartiere del Valhalla?). anche per i personaggi che all’inizio parrebbero i più “teneri” con il prossimo.
Un film di s/f a basso costo, di certo: una strada, un’auto, un piccolo gruppo d’attori. Intorno, il deserto. Non un laser, non uno zombie (solo macchie rossastre indicano il contagio), non un mostro di gomma (o di pixel), nulla di prevedibilmente “fantascientifico” in quest’incubo, a suo modo classico del genere apocalittico-epidemico, è il meno “prezioso” come confezione estetica (benché comunque ottimamente girato) e, direi, sicuramente il film più toccante a livello emotivo del trittico in esame (a lato un poster alternativo).
È anche il più fittamente parlato, in effetti: non si muore in silenzio, da “carriers”, ma anzi gridando, implorando pietà agli stessi “amici” insieme ai quali la si è negata ad altri qualche ora, qualche giorno prima.
Ma si gridano parole in cui ormai s’è spento ogni residuo di logos, di discorso, di comunicazione fra individui, ormai isolati dal puro istinto di sopravvivenza.
SPOILER TRAMA
Che, alla fine, lascerà i due superstiti padroni dell’agognato cottage ma “come estranei che non hanno più niente da dirsi”.
FINE SPOILER
Una visione dolente, che ci fa ripensare al Tempo dei Lupi di Haneke nel cinema, ad un sottovalutato romanzo Adelphi di qualche anno fa (“E allora siamo andati via” di Michael Kimball) in letteratura. Non una storia di s/f ma di Grande Depressione americana, eppure raggelata nello stesso orrore umano. Si sa, buona s/f e buona letteratura tout court sono assai più osmotiche di quanto si creda. {mosimage}
Probabilmente ritroveremo le stesse emozioni nell’imminente The Road, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy.
Al di là di ogni paragone, una visione che lascia “percossi e attoniti” per lunghi minuti dopo la fine dei titoli di coda. Incapaci di parlare a propria volta, con l’anima in subbuglio come raramente accade.
Cercate tutti e tre questi film. La biodiversità esiste ancora e va coltivata.
Mario