"Il blues è la musica del diavolo e noi i suoi figli"
(Walter Mosley)
In un articolo dello scorso novembre annunciavamo l'imminente uscita del 23° album d'inediti dell'inossidabile ditta Jagger & Richards: bene, con un po' di ritardo dovuto anche a disavventure personali, possiamo confermare a nostra volta che il risultato è efficacissimo, oltre le più rosee aspettative: il terzo album di sole cover blues dei Rolling Stones avrebbe potuto benissimo essere stato registrato nel '65 (cioè dopo il loro secondo disco da cover band) anziché nel 2016, tanto è classicamente "all Stones" l'interpretazione dei classici di Willie Dixon, Chester Burnette, Walter Jacobs, Eddie Taylor, Jimmy Reed e così via.
Registrato in due giorni, praticamente live in studio e totalmente privo di overdub ("persino il nostro primo album del '64 ne aveva qualcuno", ricorda Jagger nel booklet a proposito delle session), Blue & Lonesome sfoggia dodici scarne gemme del Delta che - se davvero fossero state incide a quei tempi - oggi sarebbero già circonfuse dell'alone del mito. Vi partecipano session man di lusso, come il fido Darryl Jones, bassista fisso dall'uscita di Bill Wyman, Chuck Leavell (dell'Allman Brothers Band alle tastiere, Jim Keltner (Bob Dylan, Ry Cooder) alle percussioni e sir Eric Clapton, ospite alla chitarra in due brani (Everybody Knows About My Good Thing e I can't Quit You Baby), sui quali spadroneggia peraltro l'armonica di Jagger, mai così in vista (e in così tanti pezzi) in un disco degli Stones.
Per farla breve, Blue & Lonesome è il disco semplice, onesto, caldo di feeling e privo di ammiccamenti alle mode del momento che nessuno s'aspettava che Jagger & Co. sapessero ancora sfornare. Non contiene nulla di nuovo dal punto di vista delle sonorità, ma se amate i "buoni, vecchi, immortali Stones" non vi deluderà. Persino la copertina (sopra a sinistra), col solo immortale logo della linguaccia in campo blu, a parte non candidarsi al Grammy dell'originalità (se esiste) non lascia adito a dubbi sul contenuto.
Se invece cominciate a temere che la vitalità di tutti questi settantenni del rock non lasci spazio all'emergere di nuove sonorità e che non ci resti che risentire il già assimilato, il disco che fa per voi è sicuramente Devil Is Fine di Zeal & Ardor (cover in apertura), breve debut LP a 45 giri di 9 brani in uscita il prossimo 24 febbraio che si staglia già nettamente come l'opera più bizzarra e originale ascoltata da un bel pezzo a questa parte.
La title track (di cui QUI vedete anche il video promozionale) accosta il canto solista disperatamente blues del leader svizzero-americano Manuel Gagneux (foto a destra) a un coro in puro stile spiritual ritmeto dal classico battito di catene degli schiavi delle piantagioni sudiste. Ma non pensate a un'operazione filologica: già colla successiva In Ashes le voci vengono frustate da un tappeto di chitarre metalliche degne dei Sunn O))) e da martellanti rullate di batteria da black metal più che da classico blues del Mississippi. Con la terza, Sacrilegium I, ci spiazza ulteriormente: una base di elettronica secca e vistosamente sintetica sorregge dei cori da chiesa con un accostamento stridente che neanche il Moby di Play.
E non è mica finita qui: la successiva Come on Down abbina una strofa vocale da field recording di Alan Lomax a un riff strumentale metal feroce quanto virtuosistico, mentre Children's Summon - introdotta accosta il metal satanico ad un coro di voci virili da chiesa europea, ma invocante nomi di demoni: "BAAL, AAMON, BARBAS" etc. Sacrilegium II ci consola con un altro carezzevole carillon, ma già la seguente Blood in the River ("a good god is a dead one") ritorna all'empio accostamento spiritual/black metal.
Ora, che il blues fosse "musica del diavolo" è concetto che circola da un bel pezzo: ma nessuno aveva ancora versato sangue nero nell'acquasantiera con tanta protervia da immaginare una ribellione degli schiavi neri americani in forme paganeggianti che fanno pensare a un voodoo in salsa scandinava (area d'elezione del nero metallo, appunto).
Ma le frecce all'arco del Gagneux non si esauriscono nella ricerca del maledettismo shock fine a se stesso: la successiva What Is A Killer Like You Gonna Do Here ci sorprende con un vocal sussurrato su un giro di chitarra che potrebbe ricordare il Tom Waits più torbido con un Marc Ribot alla sei corde.
Chiude le danze Sacrilegium III, sognante arpeggio di sintetizzatore come se nulla fosse stato e stessimo benedicendo un confortante "Ite, missa est".
Come avete capito, senza tanti giri di parole Devil Is Fine (a lato la copertina del singolo con inedito in uscita) è il disco più inaspettatamente spiazzante ascoltato non solo nell'ultimo anno in qua ma probabilmente degli ultimi anni. Da ascoltare senza pregiudizi, accanto all'altra geniale fusione di punk/dark/prog dei Mugshots di cui s'è parlato in chiusura d'anno.
Sarà il caso di andare a sentire gli Zeal & Ardor dal vivo nell'unico concerto italiano, previsto per il 3 maggio prossimo all'Arci Magnolia di Segrate Devil Is Fine (QUI l'evento social). E di scoprire se l'originalità si mantiene anche sulla lunga distanza.
Per ora una gran sorpresa, che si fa anche ascoltare con più piacere di tanto black metal "puro" e monocorde, un po' come... massì, i classici blues dei maledetti Stones!
Mario G