Del rapporto tra la psichedelia (definizione che vuol dire tutto e niente, ma che comunque è usata in ambito rock) e le dilatazioni improvvisative del jazz ci eravamo già occupati in un articolo del 2015 su un paio di album della Long Song.
Questa liaison però è sempre ricca di nuove sorprese, perché in un’area definibile psychedelic jazz in senso ampio si potrebbe collocare ad esempio anche l’hip hop sperimentale di un mattacchione come Flying Lotus (pronipote di John e Alice Coltrane e cugino de loro figlio-sassofonista Ravi), al cui ultimo parto – You’re Dead (Warp, 2014), cover a lato) – partecipano non solo colleghi rapper di lusso come Snoop Dogg e Kendrick Lamar, ma anche jazzisti di vaglia, come il sassofonista Kamasi Washington (il nuovo Coltrane?), il polistrumentista Thundercat (dai Suicidal Tendencies a Erykah Badu) e un peso massimo come Herbie Hancock, il vero continuatore della fusione fra jazz, rock e le evoluzioni della black music anche commerciale abbandonata da Miles Davis con il Doo-Bop (copertina a destra) uscito postumo nel ‘92, quando il 65enne trombettista stava fiutando l’ennesima spiazzante svolta verso la new thing dell’hip hop.
Il risultato finale del meltin’ pot di Flying Lotus, dicevamo, è una specie di frankzappismo hip hop di frammenti, campionamenti, stacchi jazzistici, armonie celestiali e rumoracci (certamente non cantabile né ballabile) che a propria volta pianta la bandiera un po’ più in là di un Future2Future del coraggioso Herbie Hancock (cover qui a destra).
E tutto ciò che c’entra colla psichedelia (inesauribile fiume carsico della musica da 50 anni), chiedete voi? C’entra perché in questa evoluzione musicale c’è spazio anche per altri validi jazzisti italiani, riuniti sotto l’etichetta pugliese Auand, in cui un certo aroma psichedelico riaffiora fluttuando, per esempio dalle raffinate trame di piano elettrico (il Fender Rhodes protagonista di In a Silent Way e usato da Sun Ra, Weather Report e Mahavishnu Orchestra) e sintetizzatore (il monosynth analogico vintage Korg MS 20, usato da Depeche Mode, Einstürzende Neubauten, Air, Portishead e Prodigy) che Andrea Bozzetto tesse col suo trio Edna. L’album s’intitola Born To Be Why (cover qui a lato), con gustosa citazione nonsense degli Steppenwolf, e il trio comprende la batteria di Mattia Barbieri e il contrabbasso di Stefano Risso, fondendo così una sezione ritmica acustica e classicamente jazz a un tastierismo solista che potremmo idealmente situare – se mi passate il collegamento acrobatico – a mezza via fra un Brian Auger storico (senza Julie Driscoll) e… sì, proprio quell’Herbie Hancock del 2001 (senza Chaka Khan & co.).
È questa miscela che rende Born To Be Why una pregevole incursione nello psychedelic jazz, in cui le composizioni del trio s’alternano a un’ardita cover di Bowie (Life On Mars?), il cui tema melodico viene sfibrato fino all’irriconoscibilità prima d’arrivarci all’orecchio, e alla soave Pure Imagination, dalla colonna sonora di Willy Wonka & the Chocolate Factory (quello del 1971), già strapazzata dai Primus.
Il tutto, con gli 8 brani autografi degli Edna, si bilancia perfettamente fra sonorità sperimentaleggianti epigone del Sun Ra cosmic-elettronico e del prog di Canterbury, pur entro un’indiscussa competenza jazzistica e accessibilità melodica che impedisce anche ai suoni più sghembi di risultare rumorismi fini a se stessi.
L’altro trio che secondo me profuma di moderna psichedelia è l’inquieto Hobby Horse, formato dal tenorsassosfonista (e clarinettista) americano Dan Kinzelman col bassista (elettrico) Joe Rehmer e il batterista Stefano Tamborrino: nel loro Helm (la copertina è in grande in apertura) tutti e tre i componenti maneggiano anche non meglio precisate “electronics” e si uniscono nel canto per un omaggio proprio al genio canterburyano par excellence, Robert Wyatt. Il brano è Born Again Cretin (che trovate sulla raccolta Nothing Can Stop Us dell’82), resa piuttosto fedelmente.
Anche qui una seconda cover di provenienza “rock” conclude l’album: si tratta di Evidently Chickentown del performance poet punk John Cooper Clarke, che gli Hobby Horse invece annegano in un lago ambient di oltre 25’, da cui la frenetica filastrocca sbuca impazzita all’improvviso verso i 5’ per riaffondare nei droni a 7’. Se non è pura psichedelia questa…!
Anche il resto del disco, con i 5 brani composti dal trio, seppur breve (restano 24’ scarsi) non lesina le sorprese: infatti i suddetti electronics manipolati dai musicisti portano il jazz drumming di Tamborrino ad incrociare non di rado i loop ritmici del drum and bass (proprio quelli che Hancock e Laswell agganciavano in Future2Future) con effetti spiazzanti, perché frattanto le peregrinazioni del sax e del clarinetto sono invece puro Coltrane/Eric Dolphy pre-free. Salsa Caliente è un delirio latin-jungle, The Go Round un rap tinto di noir jazz e Cascade un altro futurswing ombroso e notturno, punteggiato da clap elettronici da disco music d’antan.
Un album originalissimo, vario (la presenza calda dei fiati arricchisce il suono rispetto alle sole tastiere), un’autentica scoperta molto consigliata. Insieme a Edna, certo.
Peraltro, il catalogo Auand (di cui en passant mi piacerebbe vedere una mostra delle bellissime copertine: qui sotto ve ne propongo una mini gallery slegata dai temi dell'articolo) è pieno di ghiotte sorprese da anni: come ad esempio l’album Coherent Deformation (ormai risalente al 2006) dei Synapser del tastierista Giancarlo Tossani, accompagnato dal sax-clarinettista Achille Succi, dal contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e dal batterista Cristiano Calcagnile, nome già sentito al fianco di Cristina Donà, di Manuel Agnelli nel concerto milanese con Damo Suzuki (nella foto qui a destra), ma anche di Anthony Braxton, Giorgio Gaslini, Ares Tavolazzi, Dagmar Krause, Servillo e Ferretti, Steve Piccolo, Massimo Pupillo e Zu e mille altri.
Un album più strettamente jazzistico in realtà, quello dei Synapser (anche se non certo accomodante), in cui comunque faceva capolino una versione quasi cameristica del tema di The Fog di Carpenter!
Come al solito, un autentico dolore pensare che tutta questa nuova musica italiana di assoluto valore non goda dell’esposizione internazionale che possono vantare nomi più glamour come quelli citati nel corso dell’articolo, cui non sono affatto inferiori qualitativamente. Il consueto destino della creatività italiana… a meno che voi non facciate la differenza: perché ricordiamoci sempre che il mercato lo facciamo NOI, non Sanremo o Lady Gaga. Questi fenomeni sono big solo perché noi permettiamo loro di diventarlo. Ma noi possiamo sempre scegliere in 10.000 di non vedere Sanremo (“sai, solo per poter poi dire la mia…”) e invece ascoltare un bel disco jazz privo di nomi-star, come leggere un romanzo non best seller (oppure un saggio… su rock e fantascienza!).
A voi la scelta, lettori postumani.
Mario G
P.S.: a parte le copertine originali dei dischi, l'unica foto live (dal concerto del Damo Suzuki Network con Manuel Agnelli è di Mario G)