L’idea alla base della nuova sezione videoludica di Posthuman, ora al debutto, è di “raccontare i videogiochi” in un modo diverso e non semplicemente scrivere recensioni finalizzate ai consigli per gli acquisti, tipico della stampa-web sull’argomento. Uno sguardo “critico” che cerca di svelare le novità e di coglierne i nessi con il mondo circostante. Ci concentreremo non solo su quei giochi in grado di mettere in scena utopie e distopie del futuro postumano ma su tutte le esperienze di qualità, degne di questa definizione di medium “maturo”. Un’attualità che evolve a velocità furibonda creando ponti con altre arti dalla musica rock ai film sci-fi e fantasy, come potete leggere nel saggio FantaRock (Arcana 2018), che a questo mondo (come a quelli strettamente connessi dell'animazione "a nuvolette" e delle serie tv ha dedicato una sezione, umilmente curata dal sottoscritto.
Ci sono un bel pò di stereotipi-certezze sui videogiochi che vorrei distruggere con voi prima che quest’articolo esaurisca la vostra attenzione. Stereotipi che negli anni sono diventati semplici certezze che hanno creato molta diffidenza a livello culturale e che è arrivato il momento di demolire. Grazie a questa demolizione sarà più facile procedere poi ad una lettura critica. Ve li elenco:
“I videogiochi roba da bambini”. Falso: perché oggi sono giocati da una fascia d’età che arriva sino ai 60 anni grazie anche ai casual games introdotti con l’uso degli smartphone e dei tablet. Inoltre alcune produzioni hanno raggiunto una tale complessità di meccaniche e contenuti per cui certi titoli sono solo per gli over 18. Questo non significa che i bambini hanno smesso di giocare o che ci sono solo titoli per adulti ma che, semplicemente, il panorama è molto ampio.
“I videogiochi sono una perdita di tempo”. Falso: perchè sono di per sè un’esperienza culturale portatrice di valori, riflessioni e soprattutto di emozioni come può esserlo un film o una partita di calcio. Certo, si può scegliere di perder tempo giocando ma non è il gioco di per sè ad essere un investimento inutile. Come riferimento culturale cito il libro di Johan Huizing "Homo ludens", solo per fare un esempio del dibattito, dove si argomenta che il gioco è un motore culturale.
“I videogiochi sono solipsistici e/o distruggono le relazioni sociali”. Falso: oggi i giochi stanno abbandonando l’esperienza in single player puramente uomo-macchina in favore di un’esperienza multi-player iperconnessa via web. Tutte le consolle “next-gen” hanno funzionalità di audio-chat in cui i giocatori comunicano all’esterno e all’interno di una sessione di gioco con i propri amici o nuovi amici incontrati per il gioco. Questo porta a creare relazioni con l’esterno. Inoltre giocare in single player non sempre significa giocare da soli. Le nuove funzioni di streaming consentono di condividere l’esperienza con la propria cerchia di contatti. In passato in assenza di questi incredibili vantaggi tecnologici si poteva comunque giocare insieme andando a trovare i propri amici a casa. Da ragazzino ho passato spesso i pomeriggi in compagnia del mio migliore amico a giocare a giochi single player controllando a “turni” l’eroe digitale. La differenza è che oggi con internet posso stare comodamente seduto nella mia stanza senza spostarmi. Ovvio che si può sempre scegliere di chiudersi in una stanza da soli e non parlare con gli altri ma non si dica che sono i videogiochi a bloccare le relazioni con l’esterno. Bisogna andare a cercare nelle storie personali altri elementi per spiegare la mancanza di socialità.
“I videogiochi sono solo giochi futili, scaccia pensieri”. Falso: perchè non sono “tout-court” distrazioni di massa come qualcuno li ha definiti ed in generale le emozioni associate a diversi tipi di giochi sono lontanissime dall’essere classificate “spensierate” ma coinvolgono ironia, dramma o horror. Questo non significa che non si può giocare semplicemente per ammazzare il tempo e la noia o i propri pensieri così come si può fare guardando un film o le news in tv e spegnere la propria testa... ma non sono i giochi intrinsecamente “futili” a farlo. Va detto che esistono giochi “futili” e con poche qualità o con l’obbiettivo deliberato di esserlo solo per essere venduti.
“I videogiochi non sono arte, non hanno niente da dire”. Falso: il medium videoludico ha anche autori e “artisti” impegnati e storie complesse dai risvolti politici e sociali. Il fenomeno stesso è stato istituzionalizzato come “arte” e se ne discute nelle università, per esempio con il dibattito di utopia-distopia. Il medium sta maturando ed è un processo in itinere. Nonostante sia un fenomeno recentissimo ha fatto notizia l’introduzione al MOMA di New York di una sezione dove si espongono alcuni videogiochi che hanno fatto la storia. Quello che sta accadendo al mondo videoludico è simile a quello che in passato è accaduto al mondo della musica rock o al cinema (cfr. ancora il citato saggio FantaRock). Dopo oltre cento anni di storia, il cinema si è trasformato da iniziale fenomeno da baraccone in settima arte. Inoltre, anche per i videogiochi valgono le considerazioni su arte e mercato (intrattenimento). Arte e mercato si influenzano e si alimentano a vicenda e l’esistenza del mercato (e dell’industria) non impedisce l’esistenza di progetti di natura artistica e culturale. Si può distinguere quindi tra progetti più o meno culturali e artistici e giochi puramente orientati all’intrattenimento. Il cinema così come i videogiochi richiedono immensi capitali, professionalità e tecnica per esprimersi al meglio e questo, in un certo tipo di dibattito, viene visto come alieno allo spirito artistico.
“I videogiochi non hanno rapporti con le altre arti si tratta principalmente di programmazione”. Falso: la scrittura di un videogioco è molto complessa (e si riferisce ad una propria storiografia) e assembla diverse arti e tecniche visuali, uditive e matematiche (un pò come il cinema, ma lo include). Per riuscire a produrre un videogioco di qualità oggi bisogna miscelare non solo programmazione ad alto livello ma cinema, design, pittura, musica ed anche scultura (creare un certo tipo di rappresentazioni 3D nella fase di “modelling” è come creare una scultura). Per non parlare di competenze sociologiche e psicologiche. Oggi creare un gioco multiplayer significa “gestire” una community con tutte le sue dinamiche. Pura sociologia applicata quindi, non solo legami con l’arte ma anche con le scienze.
“I videogiochi sono innaturali, costringono ad interagire con una macchina e sono diseducativi incitando alla violenza”. Falso: i “nativi digitali” (dal conio giornalistico delle nuove generazioni post 2000) dimostrano un’ibridazione maggiore con la tecnologia di altre generazioni trovando naturalissimo usare “device” che mediano l’esperienza. Usare un mouse o le dita per gestire il proprio smartphone lo consideriamo innaturale? Schiaccare un’icona è innaturale? Per chi gioca da anni il pad è naturale così come l’utilizzo di uno sterzo nell’auto o l’utilizzo di programmi applicativi su un pc in ufficio. Mandiamo email o leggiamo ipertesti senza chiamare un tecnico. Le interazioni uomo-macchina sono state al centro di enormi studi sia dal lato hardware che dal lato software ed il risultato finale è stato quello di minimizzare gli ostacoli nell’utilizzo di sistemi operativi e device ed in generale nella gestione delle interfacce relative a numerose tecnologie. Per quel che riguarda il tema se i videogiochi siano diseducativi o meno rimane un terreno scivoloso: molto dipende da che valore diamo a quel tipo di esperienza e che filtro critico siamo capaci di attivare. Stiamo utilizzando il medium per imparare qualcosa, per giocare o per emozionarci?
Oggi ci sono programmi dal taglio ludico che ti insegnano una lingua, a suonare la chitarra o le differenze tra i colori ai bambini in età prescolare. I videogiochi sono forse uno dei medium didattici più innovativi per eccellenza. Certo, solo alcuni titoli hanno questo ruolo ma sono sempre più numerosi. Spesso polemiche giornalistiche sulla violenza nei videogiochi hanno fatto da volano a critiche superficiali. Può il medium costringerci a fare qualcosa di contrario ai nostri principi etici? Se spariamo ad un poligono significa che poi vorremmo farlo ad una persona reale una volta messo giù il pad? Eppure i giochi dove si spara agli zombie per sopravvivere dopo un’ipotetica catastrofe apocalittica sono molto apprezzati dai ragazzi. Questi giochi stanno ipnotizzando i nostri ragazzi? Riprogrammando i loro cervelli? Sono titoli con milioni di videogiocatori, alcuni franchise adirittura centinaia di milioni di giocatori. Si sono tutti trasformati in serial killer? Voglio fare un paragone con il cinema, che pure spesso è stato accusato di incitare alla violenza, eppure dopo tanti anni non è che gli spettatori escano dalle sale cominciando a fare stragi.
La violenza nel cinema è stata ampiamente sdoganata e sterilizzata, tollerata anche per fasce protette come quelle dei teenager. Dovremmo censurare Taxi Driver dall’esperienza cinematografica per la violenza che nel '76 fu shockante mentre oggi scolorisce di fronte a un qualsiasi Tarantino?
Eppure rimane uno dei migliori film di un grande regista come Scorsese. Il dibattito è ancora aperto e complesso e non voglio saltare a facili conclusioni. La sensazione è che molti “critici” non-videogiocatori, inclusi politici di una certa età, abbiano scaricato sul videogioco le responsabilità di atti criminali o violenti nella società civile. Il videogioco ha conquistato l’olimpo della fama e queste polemiche dimostrano la sua affermazione. Si potrebbe argomentare che, con questo successo di pubblico, lo giocano un pò tutti: dagli psicopatici alle persone “normali” (nel senso di persone con meno problemi psichici rilevanti) così come accade per il cinema e la musica. Queste arti sono diventate popolari. Sia la musica pop che il cinema hanno avuto bisogno di emanciparsi, di maturare. Hanno avuto bisogno di avere i loro eroi e i loro artisti “ispirati” che hanno cambiato le cose. Chi ascoltava la “musica del diavolo” sembrava condannato a diventare un criminale devastatore, mentre ormai a distanza di tempo queste considerazioni fanno sorridere. I disagi sociali e psicologici hanno radici più profonde che non la semplice visione o fruizione di giochi, cinema o musica rock. Detto questo il dibattito sulla game addiction o sul loot in stile gambling è importante ed è sicuramente da approfondire. Inoltre i videogiochi stanno sicuramente partecipando al cosiddetto cambiamento postumano e in astratto dell’identità postumana, già per il semplice fatto di ibridarsi con delle tecnologie e di esplorare nuove tematiche, nuovi contenuti.
I videogiochi sono altra cosa dalla narrativa e/o non hanno bisogno di una storia, che è puramente un paravento introduttivo. I giochi sono “le regole” di gioco, non hanno storia. Falso: con il passare del tempo molti titoli hanno completamente sovvertito questo clichè. In passato sicuramente era una specie di controsenso parlare di storia. Contava il “gameplay”, cioè le regole del gioco, il modo di giocare e le sue meccaniche. Va anche ricordato che una narrativa complessa è stata resa possibile solo da tecnologie più recenti con la possibilità di creare volti 3D sempre più espressivi e di qualità filmica, avvicinando le “cut scene” dei giochi a veri e propri spezzoni cinematografici. Quando non c’era la tecnologia comunque esistevano “avventure” (adventures è infatti una categoria di giochi) dove si raccontavano con interazioni “scritte” a schermo l’evoluzione della trama e i pensieri dei personaggi. Certo si può scegliere di concentrarsi solo sul gameplay deliberatamente, utilizzando una storia “striminzita” e marginale, ma questo non significa che la narrativa sia automaticamente esclusa dal medium. La cosa più interessante che sta avvenendo nei titoli degli ultimi anni è proprio la costante miscela di storytelling e gameplay, in cui ogni titolo ha la sua personale formula vincente.
Autori come David Cage stanno addirittura arrivando al lato opposto di questo continuum, dove il gameplay risulta quasi marginale rispetto a una storia che conta assai di più (anzi storie, al plurale, trattandosi di una narrazione interattiva e multipla guidata dalle scelte del giocatore). L’orientamento per cui un gioco è un gioco e la storia solo un orpello rimane un cliché ancorato agli anni ’90. John Carmack, fondatore di ID software – nota software house creatrice di DOOM (guardate una comparazione grafica di 20 anni di Doom: dagli inizi di Id-software all’attuale Doom con Bethesda), uno degli sparatutto sanguinari più famosi di sempre –, sembra abbia detto in un’intervista: “La trama in un videogioco è come la trama in un film porno, ti aspetti che ci sia ma non è così importante”. Con il passaggio al nuovo milllennio possiamo dire che John si sbagliava. Tra l’altro, persino in Doom c’è bisogno di raccontare dove ci troviamo e cosa stiamo combattendo, per quanto l’ambientazione sia trattata in maniera marginale. La contestualità narrativa aiuta a costruire un universo di senso dove i giocatori possono gustare al meglio le meccaniche di gioco. Per capirci: uccidere demoni alieni in una colonia marziana è molto meglio che schiacciare mosche in una casa labirintica (ho appena avuto l’idea per un videogioco brillante) eppure le meccaniche potrebbero essere identiche.
Dopo aver per così dire aperto con l’apriscatole alcuni stereotipi, è ora di guardare più a fondo dentro il medium. È ora di parlare di “singoli” videogiochi. Perché un gioco non è come un altro. Se a volte alcuni titoli rappresentano in pieno gli stereotipi elencati sopra, è nostro compito puntare i fari su quelli che hanno cambiato le cose o le stanno cambiando. Tornate a trovarci su posthuman per le prossime letture, andremo a fondo sull’argomento!
Walter L’Assainato
N.B. per la cover dell'articolo, Posthuman ringrazia Anthony Brolin (Esports Event Photographer)