“So che la cultura del lavoro dei giorni nostri non garantisce più l'affidabilità del posto di lavoro che poteva essere promessa alle generazioni precedenti. Ciò che credo, signore, è che le cose belle succedono a coloro che lavorano come dei pazzi, e che le brave persone come lei, che raggiungono la vetta della montagna, non ci sono capitate per caso. Il mio motto è: se vuoi vincere la lotteria, guadagnati i soldi per il biglietto”. Così arringa Louis Bloom (il bravissimo
Jake Gyllenhaal, nelle foto ai lati), all’inizio del film, rivolto a un becero capo cantiere cui sta vendendo della rete di recinzione rubata, sperando comunque di ottenere da lui anche un’opportunità di lavoro “serio”. Qualunque lavoro, ritornello cui il trentenne medio attuale è dolorosamente abituato (evidentemente, anche negli USA come in Italia). Anche un dannato stage non retribuito per iniziare a farsi apprezzare.
Ma, ancora una volta, il suo ottimismo da business school frana contro il realismo del capo operaio: “vuoi che assuma un fottuto ladro?”, gli risponde subito dopo averlo strozzato sul prezzo al chilo del rame.
È così che, tornandosene in auto in un’altra notte di magra, Lou viene folgorato dall’ispirazione: si ferma a curiosare un incidente stradale, in cui due poliziotti cercano di estrarre una guidatrice dalla sua auto prima che ci bruci viva, e vede un cameraman indipendente riprendere la scena, lo ascolta proporla telefonicamente in diretta a un’emittente televisiva… il dado è tratto: baratterà una bici rubata con una videocamera e uno scanner radio per intercettare le frequenze della polizia e arrivare a caldo su incidenti, risse, sparatorie, insomma dove scorre il sangue, per riprendere drammi da vendere al miglior offerente.
Perché questo è ciò che “va forte” nei telegiornali delle emittenti locali di Los Angeles: l’attempata panterona della cronaca nera della KWLA
Rene Russo (con Jake-Lou nella foto a destra), sua prima committente, definisce il suo telegiornale come “una donna che urla in strada con la gola tagliata”. Il sangue fa audience, come aveva spiegato a Lou il primo cameraman sul primo incidente. E lui, come dice di sé nel suo perenne, tragicomico slang “da colloquio con head hunter”, è uno che impara in fretta.
In breve diverrà un vero
blood hunter, una jena del giornalismo trash sempre con l’obiettivo puntato su ferite fresche, raccontabili in tv con i toni urlati del finto allarme sociale costruito a tavolino (“non è notizia una rapina a Compton, ma se una famiglia bianca benestante viene rapinata nella sua villa in un quartiere bene, da poveri o minoranze etniche”). Arriva a spostare i cadaveri perché rendano meglio in ripresa (foto qui sotto a destra)... Finché una notte arriva il vero scoop: una strage in una villa-bene in un quartiere-bene (più in basso a sinistra).
Perfetta. E Lou ci capita durante la sparatoria, prima ancora della polizia, riprende i morti, il sangue… persino gli assassini che scappano.
Ma Lou – definisce il suo personaggio lo stesso
Gyllenhaal – “è un coyote. È in costante ricerca e fruga sperando di trovare UNA qualsiasi cosa”. Ora l’ha trovata e ha anche imparato a spolparla a dovere: non rivelerà subito l’identità degli assassini, perché vuole programmare lui quando far accadere questo secondo scoop. E naturalmente essere l’unico sul posto a riprenderlo.
“È sempre affamato e pronto a distruggere qualunque cosa gli ostacoli il cammino”, dice l’attore. “Riuscirà nella sua impresa a qualsiasi costo”. Anche essere a propria volta responsabile di uno spargimento di sangue innocente, purché questo accada sotto il suo obiettivo famelico.
Visto pochi giorni dopo l’immenso
Interstellar dall’epico afflato cosmico e filosofico (dal quale non potrebbe essere più antipodico),
Lo Sciacallo è un “piccolo film” (tanto quanto l’altro è “grande” e ambizioso), parimenti riuscito nel suo perfetto mix di cinismo e situazioni divertenti (dal ritmo impeccabile) desunte dal quotidiano; e altrettanto necessario per capire dove finisce la nostra vita alimentando la cultura della “flessibilità” totale del lavoro, del “cogliere le opportunità” e degli altri patetici slogan con cui si traveste da autoaffermazione la jungla cui abbiamo lasciato ridurre la nostra civiltà.
Ma è una riflessione che nel film sgorga sempre sorridendo, anche se amaramente. Da vedere (in sala dal 13 novembre).
Mario G