“Santo Genet Commediante e Martire
Come santi meravigliosi, nell’atto dell’estasi, dell’oblio.
Perché quel corpo deve essere mitizzato, non è il corpo del reato del reale.
Ma è il corpo di chi si allontana dal reale, dalla storia e dalla sua storia.
Tutte qualità e potenzialità nello steso soggetto.
Genet non uccide, si uccide, si sacrifica.
Sacrifica il suo essere.
I suoi eroi vengono svuotati della loro realtà.
Ogni omicidio diventa un suicidio, un morire a se stessi su un piano estetico.
Il teatro è la macchina del delitto. La realtà diventa immagine reale che si fa riflesso
che tradisce la realtà con tutta la sua arroganza”.
Così scrive Punzo, fondendo la parola di Genet con quella del saggio di Sartre su di lui, nelle note al suo ultimo spettacolo, che da quel saggio prende appunto il titolo. Un lavoro che è già stato definito summa e forse capolavoro della poetica del regista campano.
Ci uniamo nel giudizio: Jean Genet – drammaturgo-delinquente mitologizzatore di “beautiful losers” – è sicuramente l’autore con cui la Compagnia della Fortezza dà il meglio di sé. Anche quando i suoi detenuti-attori recitano inintelleggibili in siciliano-napoletano-cinese, frastagliando l’argot di Genet nella babele delle lingue che la detenzione ha messo in mano a Punzo.
Non è facile parlare dello, di un suo spettacolo, però: anzitutto perché la sua vena programmaticamente antinarrativa lo rende irraccontabile. Gli abbiamo chiesto il perché di questa vocazione al frammento (Santo Genet pesca a piene mani dall’intera opera dello scrittore francese), già palese in Hamlice (Shakespeare+Carroll) e Mercuzio Non Vuole Morire e lui ha risposto “non mi interessa seguire una trama, infatti vado sempre meno al cinema. Trovo Genet un autore che riesce a parlare di carcerati e delinquenti astraendo queste figure nel mito e nella poesia, mentre per esempio un Edward Bunker è cronachistico, va bene per ispirare un film di Tarantino (come appunto ha fatto). Negli interstizi che rimangono aperti fra un frammento di testo e l’altro di un testo trovo lo spazio per riflettere, per scoprire qualcosa d’imprevisto, che quando seguo una trama compiuta invece non trovo”.
E Santo Genet è abitato da una galleria di personaggi che rivivono frammenti di testi diversi (Stilitano da Diario del Ladro, Culafroy da Notre-Dame Des Fleurs, un monologo da I Negri già rappresentati in passato dalla Compagnia in forma completa, ma anche un frammento di Santa Teresa d’Avila), dando vita a schegge, non più (e non meno) che illuminazioni dalle relative storie: “pensate Stilitano, sognate Stilitano, siate Stilitano. Posseduti da me vi sentirete capaci di ogni efferatezza”. Scendendo le scale del teatro verso la sala veniamo accolti da detenuti-battone, statue-marinai da Querelle, persino una salma infiorata di rose in una bara di vetro (foto a destra). Tutti personaggi-criminali-santi che poi attraverseranno la sala in pagana processione, guidati da una cantante che intona Each man kills the thing he loves (da Wilde/Querelle, poi eternata anche dall’interpretazione di Gavin Friday). E lo stesso Punzo sul palco è agghindato di nero col cilindro, una specie di Marc Almond androgino e funereo, prosopopea kitsch della Morte (di sé) evocata nel testo.
“La morte non è quello che accade dopo, ma prima che saliamo sul filo a ballare. Quando nulla più ci legherà a questo mondo potremo apparire, saremo dei morti che ballano sul filo”, dice infatti il testo (cito a memoria).
Morte di sé come individui reali, per dare vita alla bellezza della poesia, che è solo irreale, tradimento della realtà (ecco perché anche il rifiuto della “storia”). Perché “fuori da questo palco la nostra vita si confonde con le vostre”, recita la sua “star” Aniello Arena-Culafroy.
Marinai, negri, splendidi criminali, gli angeli genettiani ballano con le donne del pubblico delle prime file (foto qui a destra) al suono della pianola da vaudeville di Andrea Salvadori, distribuiscono fiori per farsene inondare alla fine. Perché il teatro, la poesia, trasforma in ghirlande di fiori le catene dei carcerati; su cui vengono anche proiettati affreschi di madonne.
Purtroppo, dice Punzo, “il solo luogo in cui si può costruire un teatro è il cimitero”: di qui la monumentale, almodovariana (nel senso del kistch che ne esalta la finzione, l'artificalità, come le statue di cartapesta che rappresentano gli stessi attori, sventolate in scena da loro medesimi) ma bellissima scenografia floreal cimiteriale (di Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni e Punzo stesso), in cui il regista ha condensato gli spazi del cortile, delle celle e del suo teatrino di prova nel carcere di Volterra, dove originariamente (come ogni anno) lo spettacolo ha debuttato, e che ben più abbagliante forza doveva avere in quella dimensione (cui purtroppo noi non abbiamo assistito e a cui si riferiscono le foto che vedete qui ai lati). “Se opponiamo la scena alla vita è perché la scena è un luogo prossimo alla morte” (sempre dal testo di scena).
La sala del Menotti non è il cortile della Fortezza, ma in compenso è gremita come sempre quando ci torna la Compagnia di Punzo e risuona di frequenti applausi a scena aperta per tutta la durata (quasi due ore) della messa in scena.
Conclusa da quasi dieci minuti di ovazioni e chiamate in scena del nutrito cast (35 persone in scena, compresi bambini-angeli tamburino e violinista, pianista a lato del palco, cantanti e un paio d’attrici velate!). Peccato che tutto ciò viva “sul filo” di tre sole recite.
Mario G
P.S.: le foto di scena (tranne quelle nel cortile della Fortezza e quella della bara di cristallo, scaricate dal web, di cui ringraziamo gli sconosciuti autori) sono state scattate da Mario durante la recita di sabato 18 ottobre.