"E si dice che persino questo oceano non è che un fantasma stellato che puoi cogliere in certi occhi...
occhi che può vedere chi vaga per le strade di certe città...
occhi che sono come due stelle accese nel profondo di uno specchio nero."
(da Il miraggio eterno)
Alla fine è arrivato anche il momento di Thomas Ligotti: fino a pochissimo tempo fa autore “per pochi”, che nulla ha fatto per farsi conoscere, men che meno trasformarsi in “personaggio” (come deve fare oggi uno scrittore per vendere), della sua vita si sa pochissimo, di foto sue ne circoleranno in rete tre o quattro al massimo (una la vedete qui a lato) e non certo di quelle che fan pensare a una glam star, ma del resto neanche a un tenebroso poète maudit. Tanto che la postfazione di Poppy Z. Brite alla sua antologia The Nightmare Factory del 1996 s’intitolava “Are you out there, Thomas Ligotti?”.
Mistero ben custodito come i suoi racconti oscuri e raffinati quanto spesso eterei e criptici, Ligotti è rimasto autore per pochi ancor più nel nostro Paese, dove per anni non è stato disponibile in italiano che la raccolta I Canti di un Sognatore Morto edita da Elara (sopra a destra la copertina della riedizione oggi disponibile), più qualche racconto tradotto dalla rivista Hypnos e le versioni a fumetti de La Fabbrica degli Incubi (2008, Free Books, accanto vedete la copertina del geniale Ashley Wood e una tavola di Colleen Doran per il racconto L’ultima festa di Arlecchino).
Tutto cambia nel 2014, quando scoppia il caso True Detective: lo sceneggiatore Nic Pizzolatto (che ha peraltro disseminato la prima serie di citazioni goth del Re Giallo, come la capanna nel bosco chiamata “Carcosa”, per cui il libro di Robert W. Chambers è stato prontamente ristampato da Vallardi, nonostante l’edizione di Hypnos già disponibile) riconosce d’essersi ispirato a Ligotti per alcuni dialoghi. In realtà l’enfant gaté di Hollywood non ha preso dai racconti dello scrittore di Detroit (impossibili da filmare), bensì dal saggio filosofico La Cospirazione contro la Razza Umana (edita dal Saggiatore, cover a fianco) per nutrire i dialoghi ultra nihilisti del detective Rust Cohle (Matthew McConaughey), effettivamente uno dei punti di forza drammaturgici della (bellissima) prima stagione della serie.
Inizia così la riscoperta di Ligotti: Il Saggiatore pubblica in italiano l’antologia di racconti Teatro Grottesco e poco dopo il citato saggio (che altrimenti mai avrebbe visto la luce nella nostra lingua), mentre Elara risponde con una terza antologia, Lo Scriba Macabro, per la gioia degli amanti del weird gotico moderno (entrambe le copertine qui ai lati).
Amanti che oggi possono ulteriormente esultare per l’uscita – sempre dal Saggiatore, tradotta da Luca Fusari e sempre illustrata da un’inquietante copertina freaky dell’artista/performer francese Olivier De Sagazan (in apertura) – di Nottuario, in originale del 1994, quarta antologia di racconti ligottiani in italiano: racconti che confermano la definizione del loro autore come del più autentico epigono di H.P. Lovecraft che la letteratura contemporanea ci abbia sinora offerto.
Cos’è infatti la “lovecraftianità”, quest’impalpabile caratteristica più spesso evocata a riferimento di tanti narratori dell’orrore sovrannaturale che realmente corrisposta? Secondo me si tratta di una componente in realtà assai fuori moda dello scrivere, antimoderna, per niente “pulp” e perciò anche minimamente cinematografica (a dispetto dei molti film ispirati ad HPL, su cui contiamo di tornare in futuro): oggi la trama di un horror (su carta o pellicola) prevede in genere parecchia azione e punta tutto sul colpo di scena per farci saltare sulla sedia. In Lovecraft quasi mai: il Solitario riduce al minimo l’azione, non ci sono inseguimenti né lotte col mostro, che il più delle volte non viene nemmeno descritto, fedele alla sua storica massima sulla paura dell’ignoto. L’orrore in HPL sta nella conoscenza, nella consapevolezza che può farci impazzire di cosa ignoravamo si celasse dietro le apparenze del mondo come lo conoscevamo prima.
Ebbene, in Ligotti questa componente viene portata alle estreme conseguenze: non solo non ci sono colpi di scena ma non ci sono neppure i mostri, i Grandi Antichi, nessuna dimensione aliena in procinto d'invadere la nostra. In definitiva, non c’è nessuna dimensione perché non c’è nemmeno quella “cospirazione” che ci ostiniamo a chiamare “realtà”: siamo marionette disarticolate che si agitano senza speranza nel teatrino vuoto di un universo buio fatto di ombre, polvere… forse addirittura neppure reale, forse solo un incubo destinato a scomparire nelle tenebre più fitte e opache. L’orrore quindi è quello di un nihilismo lucreziano (Ligotti ama il latino e anche Leopardi) assai più che la paura di essere inseguiti, raggiunti, ghermiti, persino uccisi da una qualsivoglia minaccia concreta.
Ecco perché i suoi racconti sono praticamente privi di una trama come siamo soliti attendercela: galleggiano in non luoghi ("certe città", "borgo scheletrico"), in tempi indefiniti, privi di coordinate d'ancoraggio e pur finemente cesellati in una scrittura barocca e preziosa, memore del simbolismo di E.A. Poe, che prende alla gola con l’angoscia dell’inesorabile nulla che ci avvolge e ci opprime senza speranza o via di fuga. Ecco dunque che anche nei pochi racconti in cui accade materialmente qualcosa di riassumibile, come ad es. nel glaciale Conversazioni in lingua morta – in cui un pedofilo uccide bambini di passaggio alla sua porta la notte di Halloween colla scusa del “dolcetto o scherzetto” – i fatti drammatici, l’azione, si svolgono sempre fuori campo, come se Ligotti ci facesse vedere il buio dal punto di vista dello psicopatico che cancella a se stesso la coscienza del proprio stesso orrore. Fino all’epilogo non meno atroce per lui stesso.
In questa dimensione, Ligotti è il più nitido e credibile erede dell’orrore lovecraftiano, anche più di tutti i suoi validi colleghi contemporanei che a quell’eredità più o meno direttamente si richiamano: dagli storici Clark Ashton Smith, Fritz Leiber o Robert Bloch ai contemporanei Fred Chappell (Dagon, Urania horror n. 7) a Laird Barron (La Cerimonia, Urania horror 13) o John Langan (che debutta su Hypnos n. 3 col bellissimo racconto poeiano Technicolor). Perché tutti loro, anche quando lo citano apertamente, comunque lo fanno all’interno di una narrazione di accadimenti: nessuno come Ligotti scolpisce unicamente il buio in forma quasi più poetica che narrativa, come appare ancor più chiaramente nei racconti più brevi di Taccuino Notturno, la terza parte dell’antologia.
“Ritengo che a fare di Lovecraft, nello stesso tempo, un buon autore e un autore mediocre, sia il fatto che egli era uno scrittore ossessionato”, scrisse del Solitario Colin Wilson nella prefazione al suo romanzo (dichiaratamente lovecratfiano I Parassiti della Mente, Urania Collezione 177). Se accogliete questa definizione, ne troverete in Ligotti l’espressione – se non certo più “thrilling” – sicuramente più convinta e profonda.
Mario G