Abbiamo festeggiato il Suspiria e le Ossa e tutto di Guadagnino, il Nido neo gotico di De Feo e il gotico ritrovato di Avati (Signor Diavolo), il fantasy supereroistico di Mainetti con ambizioni internazionali (Freaks Out) e anche i Diabolik vintage dei Manetti. Ma poi t'arriva nella canicola agostana il Rossosperanza di Annarita Zambrano e ti tocca ricordare che resiste sempre un "velleitarismo autoriale" inutile e anche poco onesto, che ti fa rimpiangere persino i fervorini moralisti di Nanni Moretti, che nel suo Tre Piani - sconfitto a Cannes dal più ardito Titane - almeno approfondiva caratteri e conflitti dei suoi personaggi (tranne del giudice da lui stesso malamente interpretato).
Rossosperanza invece, definito su MyMovies "viscerale, impulsivo, sanguigno e passionale, un horror malato del desiderio che racconta i residui dell'Italia degli anni '80" (con assurdi riferimenti a Twilight e al Dracula di Coppola), purtroppo non è niente di tutto ciò: introdotto ieri sera all'AriAnteo da Barbara Sorrentini di Radio Popolare con la regista in una presentazione pasticciata per la preoccupazione di non "anticipare la trama del film" (o forse, col senno di poi, per l'assenza di quest'ultima) e definita "dannosa per il film" anche da chi l'ha in fondo apprezzato, è freddo e statico, oltre che falsamente pretenzioso.
La regista spiega d'averlo ambientato nel 1990 perché è stato "un anno chiave nella storia italiana"; il muro di Berlino era caduto l'anno prima, Mani Pulite stava per esplodere due anni dopo... Ok, e la nazionale tedesca vince il mondiale in Italia, e allora? Perché appigliarsi a fatti storici di contesto quando nulla di tutto ciò appare nel tuo film? Solo per darsi un alone di peso autoriale sociopolitico altrimenti immotivato, o forse sarebbe un serpente chiamato Gorbaciov nella villa di un riccone a portarci la presunta metafora politica?
Il film della Zambrano potrebbe benissimo ambientarsi oggi che il vuoto esistenziale dei figli dei ricchi e potenti Grillo e La Russa ha portato entrambi sul banco degli accusati di orribili reati di stupro di gruppo post discoteca, non dissimili dalle dissolute porcherie annoiate in cui si baloccano i figli della Roma bene nel film. Ma in fondo non è questo il problema.
La trama si sviluppa ad anello: Zena, Marzia, Alfonso e Adriano fuggono da un parco dove è in corso una battuta di caccia a una tigre che vaga misteriosamente libera per la campagna romana, e finiscono in una serata trasgry in un discoteca dove si calano pillole, baciano maschi, femmine e di tutto un po' e poi... parte il flashback di come sono arrivati lì, che è l'ossatura del film.
Zena, aspirante d.j. (l'ingrugnata Margherita Morellini sul poster), a dispetto del suo nome esteso Nazarena, ha fatto secco l'odioso monsignore che le faceva catechismo (e forse altro?) da piccola, durante il funerale del nonno, nostalgico fascista celato dalla famiglia del medico del papa. Ha un fratello balbuziente, Tommaso, che cerca di farsi accettare ma viene regolarmente bullizzato dalla teppa del bel mondo che sono i loro "amici".
Alfonso (Leonardo Giuliani, qui a sinistra anche lui presente all'anteprima di ieri, debuttante molto bravo) è un gay marchettaro esibizionista dai look glam e dalle abitudini notturne che preoccupano il padre, severo onorevole democristiano cui infine il figlio darà fuoco alla casa.
Marzia (Ludovica Rubino, a destra) è una ninfomane masochista pronta a sedurre un maturo manager televisivo per diventare ballerina in un varietà, figlia del ricco possessore di serpente e tigre, che Marzia libera durante una festa a tema horror, scatenando una strage di tutti gli invitati in villa in un horror reale (anche se dagli effetti speciali migliorabili).
Adriano (l'angelico Luca Varone, qui a sinistra) invece è mite e silenzioso, bravo a disegnare schizzi a sanguigna (usa il proprio sangue come colore), ma - scopriamo in un flashback animato dai suoi disegni alla Kill Bill - ha staccato a morsi il dito della nuova donna cui suo padre aveva messo l'anello che era stato di sua madre morta (uccisa?).
Tutti simpatici come calci nelle palle, questi circa ventenni amorali e spietati vengono spediti dai preoccupati genitori alla costosissima, felpata clinica Villa Bianca per rampolli sociopatici di famiglie ricche che li rivorrebbero "normali" ma senza clamore: vengono sottoposti a ridicoli esercizi, come camminare carponi per "sentire la positività della terra", o imparare a scusarsi se insultati invece di aggredire (e finisce in rissa), guidati da docenti da macchietta, come del resto sono tutti i loro insopportabili genitori (di cui Andrea Sartoretti interpreta tutti e 4 i padri, se non ho capito male). Poco custoditi, nottetempo i giovinastri indomiti riescono comunque a continuare nelle rispettive nefandezze, fino alla fuga finale, che chiude la trama ad anello nella discoteca di cui s'è detto, vista all'inizio del film.
Orbene, stabilito che antipatici lo sono tutti, adulti e giovani, e che di nessuno il film mette in scena un'evoluzione psicologica nel corso della trama, che dia il senso di quest'aridità emotiva in cui tutti galleggiano, che cosa resta? Un teoremino didascalico semplice ed immediato, servito sul piatto sin dall'inizio: i grandi sono stronzi in quanto ricchi, potenti e corrotti. Quindi i giovani lo sono per conseguenza, il che in qualche modo giustifica la loro crudeltà in quanto "autodifesa" in una jungla urbana in cui l'elemento meno selvaggio è la tigre (l'incursione del surreale, figura "felliniana" del quadro), che almeno sbrana solo per impulso di natura. Recitazione perlopiù schematica, dialoghi che fan sembrare Dylan Dog Sartre.
E se anche la trama è così piatta che tutta la reazione a tale ecosistema si riduce a una fuga in discoteca, una struttura così priva di reale drammaturgia può stare in piedi solo con le (generose) iniezioni di pulp con cui la regista spera di alzare la latitante tensione risultando tarantinescamente à la page: le performance erotiche di Marzia, la lezione di masturbazione da ragazza a ragazza con ricerca delle fantasie più "efficaci allo scopo" (una delle idee più brillanti), la vera strage alla festa horror in villa con tripudio di arti staccati (modesta, probabilmente per esiguità di budget sugli FX), la casa incendiata, il motoscafo esploso nella fantasia (ma spesso non è facile capire quali nefandezze accadono davvero e quali sono sognate dai protagonisti), il monsignore avvelenato e così via.
Di eccellente c'è il soundscape gelidamente techno orchestrato da Enzo Fonciello, che apre e chiude su Lullaby dei Cure (mentre Alfonso in un video balla su Boys, Boys, Boys di Sabrina Salerno). Il resto delle musiche che fluisce dagli auricolari di Zena ai nostri sono sue e sono molto appropriate al cilma della pellicola.
Esecrabile: consigliamo caldamente (è il clima) alla Zambrano di tornare al documentario o studiarsi meglio le sceneggiature di Tarantino, che sono macchine inossidabili ben prima che zampilli il sangue, e di vedersi qualche film che - su temi vicini al suo - sfoggiano visioni ben più perturbanti della sua moraletta parrocchiale sui ricchi epuloni, come Climax, The Neon Demon, o perfino il Titane che, se ha sbaragliato il citato Moretti a Cannes, qualche freccia al suo arco ce l'avrà avuta.
Per chi non crede alla mia di cattiveria e vuole sincerarsi da sé, esce nelle sale dal 24 agosto distribuito da Fandango ed è già candidato a Locarno (oltre che annunziato da un tripudio di stampa ben più positivo del sottoscritto, va detto). Ve la cavate in 88 minuti.
Mario G.