«Sludge che gronda dub che espelle elettronica
che devia grind che manda in pappa i neuroni».
Ricordate i Cop Shoot Cop? Niente chitarra, due bassi elettrici, batteria (suonata) e campionatore per dar vita a una delle più rimpiante realtà dell’industrial rock dal volto umano (anche grazie alla voce bluesy waitsiana di Tod A) degli anni ’90. Bene, il parallelo mi è venuto alla mente ascoltando Osso, l'album (Subsound Records) frutto della collaborazione fra Eraldo Bernocchi (fine avanguardista già alla corte di Bill Laswell, Mick Harris, Raiz etc., nella foto qui a destra) e MoRkObOt (che invece vedete nelle due foto sotto, live a sinistra e "cube-head" a destra): non tanto perché anche qui manchi la chitarra, ma perché i maltrattamenti radicali operati dalla malaugurata ghenga la fanno appunto “sembrare un basso”, mentre i due bassi -spiegano sempre loro nelle deliranti note al disco – “potrebbero sembrare due chitarre”, come la batteria “ potrebbe sembrare una calcolatrice ed un sacco di diavolerie elettroniche potrebbero sembrare una batteria”.
Il risultato di cotanta confusione strumentale? Come dicevo, un mix (se riuscite a concepirlo) fra i Cop Shoot Cop più rozzi degli inizi (ma senza la voce, il disco è sostanzialmente strumentale) e gli italiani Zu (ma senza il sax baritono che tanto dà al jazz feeling del trio romano). O, come dicono loro, “una massa di suono informe, viscida e raccapricciante”.
In un certo senso, l’impianto strumentale quasi drum’n’bass, l’uso ardito del/dei bassi elettrici e certi suoni elettronici potrebbero ricordare anche qualcosa del d’n’b suonato con gli strumenti anziché col campionatore dei Jungle Funk (in pratica i Living Colour senza Vernon Reid). Però loro avevano un suono pulito e raffinato, mentre Osso è un maelstrom di suoni sporchi e ingolfati, in cui domina una componente metal (sludge o grind che sia, come dicono loro nella surreale definizione riportata in apertura) assente da tutte le band citate finora.
Curiosità: MetalItalia li accosta al mix Zappa/Primus, che io invece ho appena usato per definire invece i Juggernaut (con i quali hanno in comune il sound strumentale e la componente metal personalizzata, ma non i cambi di tempo repentini e i vaudeville melodici brechtiani).
Anche se si tratta comunque di un metal concettuale: strumentale come s’è detto, più industriale nell’impatto che non “classicamente metal” (niente assoli di chitarra e urletti, per intenderci) e dalle ritmiche rotolanti che appunto risentono del mood dub più che della classica derivazione hard rock: in è un po’ come quando vedete addensarsi sopra le vostre teste un tremendo cumulo di nubi, che incombe sospeso su di voi senza mai deflagrare definitivamente, se capite cosa intendo.
Come avete capito, Osso non è il disco che ci si fischietta sotto la doccia. È un ascolto difficile, anche un po’ monocorde, come sovente le proposte estreme. Cosa gli manca? Una voce alla Tod A per scaldare l’urticante miscela col suo feeling, ad esempio. O, più in generale, una componente melodica che aiuti l’ascoltatore a distinguere un brano dall’altro.
D’altro canto, va detto che quei birbantoni lì non dovevano proprio avere in mente di puntare al “disco per l’estate 2015”, quindi perché rimproverar loro se un disco d’avanguardia non è immediatamente palatabile? Tributiamo invece loro il riconoscimento che maggiormente meritano: quello di essersi spinti in terre inesplorate, e non intendo solo dalla musica italiana: Osso è… sì una materia dura da digerire, ma è anche un disco che guarda dritto negli occhi gente come Steve Albini, Mike Patton, Bill Laswell e innovatori radicali di pari blasone underground.
Altro esempio di musica italiana che osa andare avanti nonostante tutto.
Loro dicono «Suono penetra carne. Morire ridendo, ridere morendo».
Fatevi penetrare, varrà il dolore.
Mario G