Scippo lo slogan promozionale del film per concedermi una di quelle rare puntatine di sarcasmo che, se non devono governare lo spirito della recensione, ogni tanto sono inevitabili e salutari. Una forma di spirito di servizio al lettore.
A Le Colline hanno gli occhi di Wes Craven sono personalmente legato da ricordi d’adolescenza, quindi magari non sono obiettivissimo: nella mia memoria sta a fianco di Profondo Rosso e classici di quel livello, gli son più affezionato rispetto al mitizzato Ultima casa a sinistra. Ciononostante, il remake dell’anno scorso firmato dal brillante francese Aja (Alta Tensione) non m’ha fatto gridare al sacrilegio, anzi l’ho trovato valido, con quel pizzico d’innovazione che ti fa vedere pure un remake senza mai annoiarti.
Mi dicevo, vuoi che sia nata una nuova saga horror, come per Alien o Saw? Un nuovo sottogenere, nell’affollato sottobosco del riciclaggio made in USA (dopo la saga del rinato Non aprite quella porta), il “sequel di remake”? Sono quindi andato a cacciarmi nell’anteprima stampa di questo Colline 2 pieno di buon intenzioni… ahimè, deluse! E dire che le premesse c’erano: la sceneggiatura, supervisionata da Wes col figlio Jonathan, evitava di riportare sulle famigerate colline un’altra famiglia, mettendoci invece un drappello di soldati; o meglio di reclute della Guardia Nazionale, notoriamente la più temibile congrega d’insipidi idioti che gli USA abbiano mai messo sul campo. Al riguardo, ripassarsi l’ottimo e sottovalutato Guerrieri della palude silenziosa di Walter Hill, un gioiello di suspence che al confronto di Weisz sembra Kubrick!
L’immancabile sergente addestratore-duro-negro, epigono d’una genìa che va da Ufficiale e Gentiluomo al Full Metal Jacket del citato Maestro, muore verso la mezz’ora per stolto fuoco amico, ed è una delle poche autentiche sorprese del film. Che ci lascia in balìa dei suoi cadetti, imbelle drappello di cani (recitativamente parlando) bellocci senza personalità né simpatia, che muoiono uno dietro l’altro come da contratto, senza che tu spettatore riesca a provare un moto di rimpianto per la loro sparizione. Perché è vero che il destino del drappello nell’horror è quello di carne da macello fino all’eliminazione dei cattivi, ma quando i dialoghi ti sciorinano perle di letteratura del calibro di “Mickey, succedono strane cose, qui!” (quando saran già morti almeno in tre del gruppo), oppure “Qui sono in ballo delle vite umane”, capisci che i “cani” son vittime dello script prima ancora che della mannaja.
Nella seconda parte, il film scende nelle cavità delle colline medesime, il che rappresenta la vera innovazione del plot: ora stiamo fra Aliens (come ha scritto qualcuno) e The Descent (ricordiamo noi), altri due film “di genere” (un sequel d’autore e un horror di “creature deformi”), che al confronto di questo rasentano la statura del monumento.
Questa parte è probabilmente la migliore (siamo al dunque, il buio comunque favorisce qualche colpo di scena), come ad esempio lo stupro della soldatessa mulatta, anche se la pochezza dei dialoghi da film per ragazzi (“Muori!”, gorgoglia l’orco) e la prevedibilità delle situazioni sono il vero killer da temere: c’è l’immancabile “cucina degli orrori” (alla Non aprite…), i fucili scarichi (vedi il film di Hill) ma, ben peggio, tutti i finti spaventi dell’amico che arriva alle spalle del protagonista mentre la colonna sonora fa ‘bum’!
Naturalmente, il capo-mostro muore e risorge all'improvviso brancicando i Nostri almeno tre volte, un vero tuffo al cuore...
L'immancabile sottofinale aperto fa presagire un possibile triquel, l'unico autentico incubo con cui questa pellicola può seriamente infestare i nostri sonni.
Insomma, avete capito: pollice verso.
Adesso ampliamo il punto di vista: non vogliamo fare i fighetti, sostenendo che il cinema orientale in questo momento storico è l’unico che ha il coraggio e la libertà di creare visioni originali, surreali, personali, insomma di “affondare il rasoio nell’occhio dell’uomo contemporaneo e dei suoi orrori. Ma è mai possibile che il cinema americano in questi anni non riesca a produrre che sequel, prequel e remake di film degli anni ’70 o, appunto, giapponesi? Voglio dire, parliamo un attimo dello sbandierato Hostel, benedetto dal Tarantino e già giunto al sequel: sant’iddio, c’è di che da assegnare l’oscar a Saw III! E di The Number 23, ora nelle sale col pur bravo Jim Carrey, in giro non si dice di meglio…
Insomma, in questo cupissimo scorcio di secolo - fitto di guerre, attentati, catastrofi, stupri in discoteca, parenti scannati in casa, bambini violati e quant’altro - l’inquietudine si riesce a trasmettere solo cogli effetti stereo del bruto che t’arriva alle spalle?{mosimage}