I killer mascherati vanno sempre forte. La categoria fu inventata da mastro Carpenter nel ’78 col suo Halloween (non calcoliamo l'Arancia kubrickiana, che è film molto più complesso e politico, e Non aprite quella porta, perché lì il folle mascherato è solo l’apice di un orrore familiare-collettivo), eternamente omaggiato da sette sequel più un prequel (poi anch’esso sequelizzato) by Rob Zombie (ma un nuovo reboot pare sia già all’orizzonte) e infiniti omaggi indiretti. Di lì in poi è stata valanga, come ben documenta il sito Maximumfilms con la sua lista di Venerdì 13, Scream, Smiley etc., che è inutile duplicare qui, se non per trarne qualche riflessione sulla fenomenologia del killer mascherato.
Il quale, nel felice The Strangers del 2008, assommava l’inquietudine derivata dalla fissità espressiva della maschera – che ci nasconde i lineamenti del cattivo e quindi qualsiasi comprensione del suo stato d’animo e intenzioni – alla macabra ironia del celare l’apice della crudeltà dietro lineamenti buffi, faccine carnevalesche o da cartone animato; cui il film di Bryan Bertino (ora sceneggiatore del sequel) aggiungeva una componente ulteriormente agghiacciante: l’assoluta gratuità della violenza di quegli assassini, figlia del Funny Games di Haneke del ’97 (in cui gli assassini per piacere erano a volto scoperto). Una violenza insensata e portata a termine col puro gusto di prolungare l’agonia delle vittime, anche a costo di offrire ai malcapitati temporanee occasioni di fuga o di reazione all’aggressione subìta, persino mettendo a repentaglio la supremazia che gli implacabili killer sfoggiano con gran disprezzo delle loro vittime, per il puro piacere del gioco del gatto col topo.
Sicché il primo The Strangers si faceva vedere per questo efficace mix di pura suspense e di angosciosi quesiti sociologici sull’umano consesso capace di partorire simili mostri. Una domanda su cui ha prosperato la successiva progenie di killer in buffe maschere, da You’re Next (del 2011, ma in cui gli assassini le motivazioni ce le avevano) a La Notte del Giudizio del 2013, frattanto arrivato al terzo capitolo, in cui invece si sviluppa meglio in chiave distopica il coté sociale della violenza gratuita.
Quindi, entrando in sala per visionare il nuovo The Strangers: Prey at Night (nei cinema italiani dal 31 maggio distribuito da Notorious Pictures), l’angoscioso quesito diventa, un po’ come per le vittime dei killer: ma perché ancora? Ossia, cosa ci può essere ancora d’inesplorato in un soggetto la cui sorpresa è già stata consumata ben 10 anni fa e poi sviluppato ampiamente da diversi altri film? La risposta è banale come quella di un killer without a cause: nulla. Il nuovo The Strangers (in apertura la locandina italiana, sopra a destra quella americana, a seguire tre still con la killer "dollface") è solo la riproposizione di un intreccio che ha funzionato e che quindi potrebbe rifarlo con un pubblico giovane (target d’elezione dell’horror), che all’epoca della pellicola con Liv Tyler andava alle elementari e quindi non l’ha vista.
Oh, intendiamoci: il film diretto da Johannes Roberts non è mica brutto in sé. Il regista ha avuto l’accortezza di cambiare l’ambientazione: non più l’assedio a una casa ma un gioco a rimpiattino in un campeggio desolato che – nelle riprese con leggera nebbiolina di Ryan Samul – la sua bella inquietudine la offre. Non più una coppia di vittime ma un quartetto di perfetta famiglia media americana: mamma Christina Hendricks (Drive, Dark Places e Neon Demon), babbo Martin Henderson (The Ring, Devil's Knot) con i due figli Lewis Pullman, in vista di college, e la scavezzacollo Bailee Madison con t-shirt dei Ramones, che – apprendiamo – verrà lasciata proprio lì dagli zii perché espulsa da scuola.
Quadretto anche plausibile, come spiega il regista nel press kit (“abbiamo voluto che il pubblico si affezionasse ai personaggi fin da subito, anche perché in caso contrario non gli importerebbe se essi vivano o muoiano”). Ma il punto è: quando una pazza mascherata da bambolina senza dir parola t’insegue con un coltello, chissenefrega dei problemi della famiglia media coi figli adolescenti e la scuola? Il film a quel punto diventa solo una macchina da suspense retta dalla domanda “ce la farà almeno uno o li seccano tutti?”.
E, una buona volta, chissenefrega again che l’immortale meccanismo thriller visto in migliaia di film stavolta sia “basato su fatti regolarmente accaduti”? Cosa ci cambia a noi? Che il film ci appare un documentario? No, non lo è comunque: è e rimane uno shocker basato su quegli elementi grafici di cui s’è detto: buio, nebbia, cigolii, maschere, coltello, ascia, sangue, inseguimento finale con furgone (ai lati due scatti dal set della drammatica sequenza).
Il regista cita pure il Christine di Carpenter, ma secondo il sottoscritto fin a sproposito: in furgone o a piedi, qui è sempre lo spettro di Halloween che presiede al rito. Come dimostra il tema pianistico di Adrian Johnston, che dell’immortale riff carpenteriano (a sua volta figlio diretto del Profondo Rosso di Gaslini/Goblin) è quasi una cover (quindi intrigante per quanto derivativo), ma poco sfruttato dal Roberts, che preferisce strizzarci l’occhio con una cascata di canzoni anni ’80 (per ambientare il riferimento ai “fatti reali”?), su tutte Cambodia di Kim Wilde (che ricordi, avevo il 45 giri!) durante un drammatico omicidio e Total Eclipse of the Heart di Bonnie Tyler nella sequenza della piscina, uno dei colpi di scena migliori del film (a sinistra).
Ovviamente non si svela altro. Ma anche il finale purtroppo è meno spiazzante che nel capostipite, con gancio per possibile sequel. Speriamo di sbagliarci. Per noi la saga degli Stranieri è conclusa qui.
Mario G