"Ogni favola è un gioco
che si fa con il tempo
ed è vera soltanto a metà..."
(E. Bennato*)
Poi un giorno, la bambina ormai ragazza scopre l’orrenda verità che si cela dietro la “zia-strega”, sempre solitaria ed evitata da tutti: la madre adottiva è un’accabadora, ossia una specie di “angelo della morte”, che nei villaggi sardi sollevava le famiglie dal peso di malati incurabili, la cui vita era ormai irrecuperabile, oltre che insostenibile per il malato stesso. La donna lo dice con la secca espressione “essere pronti”: infatti devono essere i morituri stessi a chiedere tale sollievo perché l'accabadora venga ad espletare la sua macabra missione. Ma la ragazza lo scopre nel modo peggiore: quando il gesto di “pietà finale” tocca proprio ad un suo amico, cui è stata amputata una gamba.
Il confronto fra la giovane e la matura è durissimo e senza ritorno: la ragazza lascia la casa e se ne va lontano, non potendo accettare il “mestiere” della madre adottiva, non potendo neanche concepire di prendere un giorno su di sé la sua missione. Ma tornerà dalla madre adottiva anni dopo, avendo saputo che la donna, ormai anziana, è tormentata da una terribile malattia che non le lascia speranza. E l’amore che comunque la lega a questa madre adottiva la indurrà a riconsiderare il senso della parola “mai” e quello che si può fare, anche controvoglia, spinti da amore vero.
Tobia Rossi, autore della drammaturgia diretta da Marcela Serli in questo spettacolo prodotto da Exendrama e andato in scena a Campo Teatrale dal 4 all’8 marzo scorsi (in una sicuramente non banale celebrazione della giornata della donna), ha adattato il romanzo Accabadora di Michela Murgia (Einaudi 2009), modificandone leggermente la trama e il tono: nel suo copione scopriamo infatti che il lutto perenne dell’accabadora risale all’inspiegabile suicidio del marito dopo una lunga e inspiegabile depressione.
Il tono invece diventa – come recita il titolo dello spettacolo – quello di una favola attraverso lo sguardo innocente e inconsapevole della bambina, allegra e sguaiata all’inizio della storia, in cui più spesso si ride e in cui prevalgono i toni della commedia grottesca. Ne risulta, come dicevamo nell’occhiello, una sorta di fiaba gotica dal retrogusto burtoniano, incanto e orrore insieme perfettamente fusi insieme in perfetto equilibrio attraverso il mistero, il non detto, il sottinteso, il temuto, come raramente accade d’incontrare.
Notevoli e versatili nei cambi di colore emotivo le due interpreti (Matilde Facheris la sofferta accabadora, Chiara Anicito la bambina-ragazza adottata, prima garrula poi sempre più drammatica man mano che cresce d’età nella trama e, parallelamente, di consapevolezza); che sul palco sono coadiuvate da un gustosissimo impianto scenografico, fatto di pochissimi oggetti di scena disposti dagli assistenti direttamente in scena con le attrici (la scenografa Luigina Tusini e il musicista Francesco Lori) sul loro cammino, ad evocare via via le situazioni in cui esse vanno a trovarsi: vasi con rami per evocare il bosco, un tavolino, una porta e una cornice di finestra per rappresentare la casa, tuoni e fulmini per le tempeste, immancabili in un gotico che si rispetti e… sì, anche le raffinate musiche composte ed eseguite dal vivo dal citato Francesco Lori, pure lui in scena con il basso, la chitarra acustica, l’elettrica, l’oboe e anche una ragguardevole voce da cantante.
Peccato che la tenitura al Campo Teatrale sia già finita, ma si sa che “Ogni favola è un gioco / se ti fermi a giocare / dopo un poco lasciala andare / non la puoi ritrovare / in nessuna città / perché è vera soltanto a metà” (*).
Io però vi auguro di ritrovarla prima o poi in qualche città, la Favola della Buonanotte, perché vale davvero la pena di vederlo, questo lavoro: nessuna concessione al pulp, ma una componente tragico esistenziale che cresce pian piano dal comico mentre nemmeno te l’aspetti e ti guida a porti le domande estreme dell’esistenza: e… se un giorno toccasse a me, che tipo d’amore chiederei che mi fosse riservato?
Mario G
(*) entrambe le citazioni dal testo di “Ogni favola è un gioco” di Edoardo Bennato (non utilizzato in scena, il riferimento è nostro).