«"Ascoltate le parole che io posso insegnarvi.
Prendete le mie braccia così che possa raggiungervi."
Ma le mie parole cadevano come gocce di pioggia silenziose,
ed echeggiarono nei pozzi del silenzio.»
(Simon & Garfunkel, The Sound of Silence)
«Giorno e notte mi tormenta lo stesso implacabile pensiero: devo scrivere, devo scrivere, devo... Appena finisco un racconto, non so perché, devo mettermi a scriverne un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora... Non posso fermarmi, non posso fare altro. Che cosa c'è di meraviglioso e di radioso in questo? E' una vita da cani, altro che! Adesso sono qui con lei, ma mi agito perché ogni minuto mi torna in mente che mi aspetta un racconto da finire.
…Non parliamo poi dei primi anni, di quelli che chiamano gli anni più belli, quando ho cominciato: scrivere per me era una tortura continua. Un principiante si sente goffo, inadatto, inutile, ha continuamente i nervi a fior di pelle, cerca di stare intorno ai veri scrittori senza che mai nessuno lo noti, e non osa guardar nessuno dritto negli occhi come un giocatore ossessionato che ha finito i soldi.
…Sì, sì, mi leggono e poi..."Sì, non male, ha talento... Non male, ma, intendiamoci, Tolstoj è un'altra cosa”.
…Quando morirò, gli amici, passando vicino alla mia tomba diranno; "Qui giace Trigorin. Era un bravo scrittore, ma non all'altezza di un Turgenev"».
Curioso come la cappa d’immobilismo che Kostja sente pesare sulla cultura della Russia del crepuscolo dell’era zarista (Il Gabbiano è del 1895) sembri tanto la stessa che lamentiamo incombere sulla palude italiana del 2015, era del web, dell’economia liquida e dello smartphone, in cui l’alfabetizzazione di massa è un fatto storico e la cultura è diventata un “mercato” in cui si pubblicano circa 6.000 libri all’anno (che nessuno legge). Ma in cui si deprecano ancora e sempre baronìe, conservatorismi, posizioni di rendita privilegiate per “grandi vecchi imbalsamati”, sclerosi ottocentesche sui generi e così via.
Ha ben ragione Antonio Syxty, regista di questa messinscena del capolavoro di Cechov a dire (in un’intervista al Giornale) che «in una città ad alto tasso di giovani aspiranti artisti, qual è Milano, Il Gabbiano non corre il rischio di sembrare inattuale». L’unico regalo che la società attuale ci ha portato rispetto alla Russia di fine ‘800 è che adesso si rimane “giovani aspiranti” fino a 50 anni. Più lunga la vita biologica, interminabile l'anticamera da fare per essere ammessi alla "cupola".
E così ci si siede in teatro per la prima volta davanti a una versione di Cechov. Ci si aspetta il classico teatro borghese “da salotto”, psicologico ed estenuantemente parlato. L’adattamento è sostanzialmente fedele al testo originale (vengono eliminati solo un paio di personaggi minori e qualche dialogo); la messinscena più “classica” di quanto ci si potrebbe aspettare da un regista che spesso guarda alla performance art e allo sfondamento dello spazio scenico, attraverso l’impiego di luoghi non convenzionali (Visioni di Solaris) o più spesso del video in scena; che qui è presente per l’intera durata dello spettacolo, con un notevole loop filmico, realizzato dal designer luci Fulvio Melli (su idea di Syxty, ne vedete un'immagine qui sotto a sinistra), che ci propone i riflessi degli attori sulla diafana superficie del lago che fronteggia la tenuta di Sorin (Gaetano Callegaro) e assiste impassibile allo sfascio delle vite di tutti i personaggi.
Segui per un po' la trama e trovi conferma alle attese: è il classico teatro borghese molto parlato. Allora tu che ami le “avanguardie” che ci fai lì?
Poi di colpo il dialogo fra Trigorin e Nina (Caterina Bajetta), da cui avete letto lo stralcio sopra, ti taglia le gambe. Alla faccia di qualunque avanguardia, il “classico” non è “passato”: parla proprio di te, è ancora presente, al cento per cento. Come le storie d’amore che s’intrecciano intorno ai conflitti artistici di questo nucleo di attori/autori aspiranti o affermati, tutte inesorabilmente destinate allo sfascio. Perché ognuno ama sempre la persona sbagliata, la sua passione franerà inevitabilmente nel disincanto e nessuno sarà mai felice della vita che gli è toccata in sorte. Qui il tema trascende il confronto Russia fine’800-società contemporanea: è una storia in cui sbattono disperatamente le ali mozzate da Saffo fino al Brad Fraser di Resti Umani Non Identificati e la Vera Natura dell'Amore (e oltre, certo).
Una storia il cui scopo, dice ancora Syxty, «è quello di sondare il mistero che accomuna la creazione artistica all’amore che si dissolve quasi sempre in una forma continua di abbandono di tutti verso tutti». Mistero e conflitti che lui giustamente accosta a quell’epico “sogno collettivo” di poter portare la “fantasia al potere”, come avrebbe voluto Kostja, trionfo di un’idea mitica di gioventù, che la nostra società ha vissuto nel famoso ’68, utilizzando in colonna sonora l’inno dell’epoca The Sound Of Silence (in due versioni: l’originale di Simon & Garfunkel e quella struggente a cappella di Nouela Johnston), da cui la citazione in apertura, e Bad Moon Rising dei Creedence (applausi finali) oltre ai minimalismi per archi di Max Richter (dal retrogusto nymaniano), che – continua il regista – “fa da contrappunto alle emozioni che i personaggi esprimono nel dipanarsi delle loro vite sulla scena”.
Inquadrato nella sua scena spoglia (il palchetto al centro, lo schermo in alto, qualche sedia sparsa e pareti nude a vista) e spogliato di qualche tardo romanticismo dell’epoca nei dialoghi in vista di un impatto più acuminato, Il Gabbiano riesce a scoprire i nervi ancor oggi. Se scrivete o recitate, maneggiate con cautela.
Mario G
(foto di scena by Valentina Bianchi, courtesy Teatro Litta)