"Se mi dici che ti è piaciuto divorzio", è stato il lapidario commento di mia moglie all'uscita dalla proiezione di Madre di Aronofsky. Ho salvato la situazione coniugale andando da solo a vedere Beau ha paura di Ari Aster, ma ora mi trovo nella medesima difficoltà a parlarne qui. Probabilmente la stessa per cui non trovate una degna recensione del monumentale opus stratificato di Darren su Creazione e Apocalisse.
Ricordo l'episodio perché la visione del nuovo, terzo film del "giovane favoloso" dell'horror d'autore - già nella mia personale top list dei nuovi maestri grazie al dramma familiare/possession Hereditary (composite a sinistra) e al pagan folk femminista Midsommar - è uno di quei film da cui esci frastornato e senza punti di riferimento. Come appunto Madre di Darren, con il quale alla fine ha in comune solo un tormentato rapporto con due diverse fasi della maternità, oltre al monumentale, folle talento registico di entrambi gli autori.
Infatti con Beau ha paura (locandina a destra) l'Aster si spinge ancor più in là dei pur labili confini del genere horror "arthouse" per tuffarsi nella selva oscura a seguire il viaggio interiore del suo protagonista (il titanico, ingrossato e pesto Joaquin Phoenix, nella foto qui a sinistra) in cui, come appunto in Madre, un primo, esile livello di narrazione apparentemente seguibile per quanto surreale, si frantuma nella foresta dei simboli psicanalitici che si stratificano nei successivi livelli allegorici, ormai totalmente sganciati da qualsiasi linearità logica.
Se in Madre l'incubo era la (pro)creazione, in Beau è il rapporto ombelicale mai rescisso dell'omonimo protagonista con la castrante madre Mona, che egli prima dovrebbe andare a trovare e poi - dopo che una sconcertante concatenazione di guai tra il tragico e il grottesco gliel'ha impedito - è atteso a seppellire, giacché pare che l'incombente genitrice sia defunta in un non meno assurdo incidente domestico.
Ahinoi, anche questo viaggio si rivelerà costellato d'insidie, a partire dall'incidente in cui Beau viene travolto da un veicolo e quindi soccorso dai colpevoli al volante, che lo curano e lo ospitano amorevolmente (immagine a lato) come un sostituto dell'idolatrato figlio maschio morto in guerra, ma lasciandolo in balìa delle nequizie dell'altra figlia adolescente sociopatica e del commilitone del compianto, impazzito in guerra, che pure ospitano in giardino.
Tutto è troppo assurdo per non essere che un deragliante trip all'interno della mente del terrorizzato e colpevolizzato protagonista: una sorta di "Everywhere, always here, all at once" (a sinistra) dalla durata parimenti fluviale, probabilmente anche qui eccessiva (e altrettanto scandita in atti teatrali alla Lars von Trier).
Anzi, ancor più nero perché alla fine i nodi familiari non si risolvono neanche con un po' di sano kung fu, ma solo in un tragico processo simbolico al protagonista (che mi ha ricordato il finale di The Wall, a destra), in un'arena acquatica che potrebbe ricordare una sala cinematografica, col fascio di luce bianca proveniente dall'alto e il pubblico assiso.
Con i Daniels, come con Aronofsky, Aster condivide la sfrenata capacità registica di fare di ogni inquadratura un capolavoro multistratificato, in cui qualcosa di non secondario accade costantemente anche in secondo piano.
Mentre con l'opus magnum di Alan Parker sul concept album dei Pink Floyd (di cui sopra rievochiamo le folli animazioni di Gerald Scarfe) condivide gli inserti animati, che fanno da scenario onirico al terzo atto, quello di un viaggio onirico nel viaggio di Beau (qui ai lati), all'interno di una messinscena teatrale in cui il poveraccio sogna la vita familiare che in realtà non ha mai avuto perché l'ingerenza della mater terribilis gli ha vietato anche qualsiasi vita sessuale, per tema che anche lui possa morire nell'atto del concepimento, come pare sia accaduto a suo padre (e a due generazioni di avi prima di lui). Anche lo sblocco di questo trauma non sarà indolore e si rivelerà una crudele sorpresa per l'oppresso eterno fanciullo indifeso.
Ora, i maligni potrebbero insinuare un cospicuo cui prodest tanta maestria cinefila se poi non ci svela altro che una madre troppo apprensiva rischia di schiacciare il figlio oggetto del proprio soffocante amore. Ma va detto che quei maligni si permettono di dubitare anche che servissero tre ore di arti marziali multidimensionali per ricucire il rapporto con una figlia lesbica e con un marito troppo mite, se proprio vogliamo essere terragni e riduttivi.
Poco prima di entrare in sala a vedere Beau, nel negozio di Bloodbuster ho raccolto da un altro cinefilo il prudente commento "va rivisto". Forse è così. Comunque se vi armate d'attenzione vigile e non mangiate pesante il film di Aster (qui a sinistra con Phoenix sul set) secondo me è una visione da affrontare obbligatoriamente. Magari anche per ripromettersene una successiva, come del resto andavano (vanno) visti tutti gli altri capolavori qui citati, rari panda di un cinema ardito e visionario che osa proiettarci l'oltre, sfidando qualsiasi sirena del profitto in un mercato sempre più difficile.
Mario G