Ammetto di non aver visto Gli Abbracci Spezzati, penultimo lavoro dell'Almodovar, un po' stanco di una forma che mi sembrava cristallizzata al cliché: grande figura femminile che supera con passione le traversìe legate alla meschinità maschile, grandi melodrammi di affetti familiari e relativi acrobatici intrecci, conditi da qualche 'marachella' ano-vaginale per ricordare che in fondo è sempre lui, il gran birichino della Movida.
Ho quindi atteso con altrettanto calore l'arrivo del suo diciannovesimo titolo, che si preannunciava invece un'incursione nel thriller (un ritorno, dopo Carne Tremula), con morbose radici nell'indimenticato Occhi Senza Volto di George Franju (1960, foto in b/n qui sotto). Ora, ancora caldo di visione, senza tanti giri di parole vi consiglio di non perderlo: son quasi due ore di colpi di scena senza un attimo di noia (che invece secondo me affiorava nei recenti Volver e La Mala Educaciòn).
Si discuterà abbondantemente (e anche noi lo facciamo qui) dei valori e delle furbizie 'trendy' del film, i dotti ci illumineranno sul suo piazzamento nella hit parade personale del celebratissimo regista spagnolo, ma va detto che stavolta a Pedro non è proprio mancata la genialità di ricucinare il plot di Franju (e del romanzo Tarantola di Thierry Jonquet da cui prende le mosse ufficialmente) - il mad doctor che deve ricostruire la pelle straziata di una povera ragazza - trasportandolo sul proprio terreno d'elezione (passioni estreme e dubbie identità, anzitutto sessuali), con un coup de théatre che sarebbe criminale anticipare, giacché la sorpresa si svela circa a metà film.
Non lo faremo quindi, scopritevelo voi al culmine di un lungo flashback sulle tragedie familiari che hanno portato il gelido Banderas a diventare appunto lo spietato chirurgo faustiano che si diceva (lo vedete nel suo algido laboratorio nelle due foto che seguono).La sorpresa vale l'attesa, non accade spesso che un film - che tra l'altro appare un remake (per quanto parziale) di un film già esistente - riesca a sorprenderti con un twist di trama come accade con La Piel.
Quindi, se tocca scomodare il nome-prezzemolo del gran Quentin, per il gusto pulp un po' sanguinario che sfoggia il neo Almodovar (più nelle scene operatorie alla Franju che negli omicidi all'arma da fuoco, dove Almodovar neppure compete col "serial killer" americano) e per l'aperta cinefilia della sua ultima fatica, il riferimento secondo me va a Bastardi Senza Gloria, esempio di remake del tutto autonomo dall'originale (lì era Quel Maledetto Treno Blindato di Castellari).
Il regista cita poi anche i gialli di Argento, Fulci e Bava (di cui al massimo troviamo la ragazza in tuta alla Diabolik, che vedete nella prima immagine in alto a destra) e, tanto per gradire, Bunuel e gli horror della Hammer; ma poi saggiamente riconosce d’aver rinunciato ad omaggiare l’intera storia del cinema per seguire la propria strada.
Non cita il francese Martyrs di Laugier, che invece al sottoscritto è tornato a galla brividosamente osservando le stazioni del calvario del povero Vicente (sotto a sinistra), sul quale pure occorre mantenere la massina riservatezza anti-spoiler.
Citazioni a parte, la sua strada passa per una fotografia preziosa di José Luis Alcaine, colori densi nella casa di El Cigarral (gli arredi optical del soggiorno, i quadri di Tiziano alle pareti, ma anche l'intensa inquadratura qui a destra) e algidi nel laboratorio infernale; per gli omaggi alla scultura di Louise Bourgeois (artista scelta non a caso, giacché a sua volta legata ai temi della sessualità e a traumi vissuti nell'infanzia), frequenti inquadrature di libri (Alice Munro, saggi sullo yoga e il make up), i severi violoncellismi classicheggianti del fidato Alberto Iglesias e il jazz di Sidney Bechet. Una confezione che gronda cultura “alta”, peraltro del tutto aliena dal citazionismo pop del Tarantino evocato sopra.
Inevitabilmente, poi, quella strada passa per i topos almodovariani: la mater dolorosa, il figlio criminale-fratello segreto del protagonista, insomma quell’armamentario mélo che da anni è la griffe dello Spagnolo. E che stavolta però risulta meno centrale, quasi accessorio allo sviluppo della pellicola: se ci pensiamo, ad esempio, l’episodio del Tigre (un'auto citazione da Kika) in fondo è una parentesi inessenziale al tragico destino del dottor Ledgard e della sua “artificiale” donna Vera (bel gioco di parole, no?).
L’altro difetto che personalmente imputo al film è il calo di tensione nel finale: risolto il plot thriller, il regista chiude su un commovente e sofferto tentativo di “ritorno alla normalità” (non spiego per non anticipare la trama), che però lascia come sospeso, facendoci rimpiangere che il film non si fosse chiuso direttamente sulla sparatoria finale.
Quest’osservazione mi porta a considerare che forse l’aspetto meno risolto del dinamico e coinvolgente film di Almodovar è proprio quello dei sentimenti profondi, ossia quelli che davano un senso anche alle situazioni più scabrose dei suoi capolavori della maturità: il figlio nato da un trans e una suora (Tutto su mia Madre) o lo stupro di una comatosa in ospedale (Parla con Lei). La Piel invece s’impernia su un medico privo di emozioni (il regista ha consigliato a Banderas la fissità espressiva del Delon di Circle Rouge di Melville) per cui, forse, se il suo autore avesse osato privarsi fino in fondo degli stilemi classici del suo cinema avrebbe siglato un nuovo capolavoro assoluto.In questa debolezza forse sta l’aspetto più autenticamente “pulp” del film: una trama senza esclusione di colpi, un lussureggiante apparato formale e un discreto coraggio (per un film major) nell’affrontare i nudi, lo stupro (o tentato tale) e le crudeltà chirurgiche, cui però difetta un po’ la “morale dello sguardo”; perché in fondo nel corso della vicenda i caratteri dei protagonisti in realtà non evolvono per effetto delle drammatiche peripezie che devono attraversare.
Questioni sottili, lo so: La Pelle Che Abito rimane comunque un bel due ore di grande spettacolo. Avercene…
Mario G
(grazie ad Alessandra e Paola per le osservazioni su Kika e Louise Bourgeois)