"A volte bisogna fare qualcosa di imperdonabile per poter continuare a vivere".
Questa sentenza lapidaria, pronunciata dal provato Jung ormai a conclusione del film, rappresenta la sintesi più perfetta e densa del 19° lavoro dell'immenso David Cronenberg, che continua a pesare su qualunque coscienza (ancora viva) mentre esce dalla sala in cui l'ha appena visto.
Perché A Dangerous Method, sicuramente l'opera più classica dal punto di vista formale del Canadese, è in realtà un testo (sceneggiatura di Christopher Hampton dalla sua piéce A Talking Cure, a propria volta tratta dal romanzo Un Metodo Molto Pericoloso di John Kerr - Frassinelli) che squassa a fondo le certezze razionali della nostra coscienza, portando alla luce il suo lato oscuro, da sempre vocazione di Cronenberg.
E, quel che più conta, mostrandocelo quale in realtà è, ci piaccia o no: consustanziale alla nostra identità e dolorosamente indispensabile al nostro progresso esistenziale, al nostro cammino di libertà interiore (nel film Jung dice che è riduttivo parlare di "curare un paziente": bisogna in realtà "ridargli la libertà").
Sia che tale cammino sia quello della scienza, dell'affermazione individuale in qualsiasi campo, o dell'espressione della propria passione istintiva. O, come nel caso dello stesso Jung nel film, di tutto ciò insieme.
Insomma, nella vita vera le scelte "win-win" (come oggi si usa chiamarle) non esistono: o accettiamo di reprimerci per aderire alla morale comune o facciamo ciò che sentiamo, e da qualche parte qualcuno ci condannerà senza appello. Come nell'eros - che Jung libera tradendo la devota moglie con la paziente-collega Spielrein - e in cui sarà proprio quest'ultima a far intravedere (tanto a lui quanto al compassato Freud) la coesistenza di un impulso alla creazione e uno alla distruzione. Un "istinto di morte" come annullamento di sé nell'altro, da cui il nostro stesso Ego rifugge come per autodifesa.
Da questo dualismo derivano molti conflitti che invece il "vecchio" Freud (nel film già affermato e 50enne, mentre il "delfino" Jung è circa 30enne) attribuisce a libido repressa da fattori legati alla storia del soggetto.
Senza addentrarci troppo nei meandri della scienza psicanalitica, è proprio questo il contributo più decisivo portato dalla Spielrein (il personaggio storicamente vissuto) alla disciplina, anche se riconosciuto solo molto più tardi.
Forse anche perché vissuto, letteralmente scavato nella carne di una passione primordiale e devastante, sadomasochistica a ruoli alternati: prima Sabina sviscera il proprio desiderio di rivivere le punizioni corporali di un padre violento (le scene più "pulp" del film, griffe del Cronenberg più ardito); poi è Jung a finire vittima della passione e ritrovarsi svuotato e distrutto dal demone che ha risvegliato in sé attraverso la paziente-allieva-amante (ne vedete un momento nella scena sopra a sinistra e il confronto finale nella foto più sotto a sinistra). E che la sua educazione cattolica gli impedisce di vivere fino all'estremo "edonismo panico", che gli suggerirebbe il collega-libertino Otto Gross (Vincent Cassel, che invece vedete in azione nel framne qui a destra), una sorta di Wilhelm Reich ante litteram.
"Sono io il malato", dice infatti di sé Jung-Fassbender. E "Solo il medico ferito può guarire". Ecco perché, anche se a Venezia molti hanno criticato Cronenberg di "non esser più quello di una volta", A Dangerous Method è invece (come i suoi recenti noir così lineari e poco sperimentali) un ulteriore passo di approfondimento di un cammino autoriale d'una coerenza che ha ormai del titanico: passata dal mettere in scena i mostri di una scienza deviata a sondare quelli dei media, della droga, del nostro stesso corpo, del sesso e dell'identità, della mente e dei lati oscuri che possono erompere anche senza bisogno di esperimenti faustiani.
{mosimage}In effetti il film, oltre che formalmente classico e rigoroso, è addirittura statico nel seguire il carteggio Freud-Jung-Spielrein in assenza di azioni sceniche dinamiche; e in fondo nel far riprodurre agli attori le movenze austere e ingessate di personaggi che, per quanto in tempesta, vivevano nel compassato ambiente della borghesia asburgica.
Un casting evidentemente felice, e di certo una direzione ferma da parte di unl regista che certo non è nato ieri, hanno comunque dato vita a uno Jung travagliato (Fassbender), un Freud imprevedibilmente freddo e calcolatore (Morgensten), un Gross insinuante quanto basta (Cassel, s'è detto), facendoci scoprire una Knightley che supera qualsiasi interpretazione precedente con la potenza devastante della sua follia-passione (le prime scene in manicomio turbano senza bisogno di effetti splatter e il suo volto si deforma nello spasmo fino a farla apparire addirittura 'brutta'). Senza dimenticare la mite Sarah Gadon, frau Jung che intuisce il dramma ma rimane devota al marito cercando di recuperarlo con le armi di una moglie dell'epoca.
Un quintetto d'interpreti del calibro richiesto da uno script denso come la tragedia di vivere e scegliere, in cui ad ogni scena, anche senza muovere un muscolo vengono pronunciate frasi definitive come macigni.
Da vedere assolutamente, pena punizioni corporali ai renitenti.
Mario G.
Attenzione: la psicanalisi non si ferma qui: leggete anche l'articolo di Mario sul film di Cronenberg su SPACE CINEMA e... attendete con pazienza NeXT numero 17, su cui apparirà un ulteriore approfondimento connettivista ricco di ampliamenti letterari e concettuali sui temi della liberazione dell'inconscio, del misticismo e dello sciamanesimo