Ultimatum alla Terra di Scott Derrickson, remake del classico di Robert Wise, è uscito nelle sale italiane venerdì 12 dicembre. Crixina L ha seguito l'anteprima stampa per Posthuman: con questa recensione firma il suo debutto come autrice.
Remake dell’omonimo cult di fantascienza del 1951 diretto da Robert Wise, l’Ultimatum Alla Terra di Scott Derrickson (The Exorcism of Emily Rose) rappresenta a mio parere un ottimo tributo, rivisto in chiave contemporanea, all’originale; un’opera per l’epoca rivoluzionaria, tanto nella realizzazione quanto nella visione del mondo che trasmetteva, a tutt’oggi considerata una pietra miliare “intoccabile” (“mi rifiuto di vedere il blasfemo remake di un film che era già perfetto!”, ci ha detto Francesco Lato di Robot alla sola idea di visionare insieme l’anteprima, NdR).
Klaatu – Keanu Reeves – un alieno dalle fattezze umane, giunge sulla terra atterrando a Central Park (a Washington nel 1951) con la sua nave astrale, una gigantesca sfera luminescente verde bluastra – volutamente simile a Gaia? – accompagnato e protetto da un umanoide, Gort, che si attiva al percepire segni di aggressività verso il suo protetto, cui risponde disarmando l’avversario invece di attaccarlo. Segni che non tardano a mostrarsi da parte dell’esercito, radunatosi attorno all’uomo dello spazio appena sbarcato.
Fin qui le due pellicole procedono quasi uniformemente. Nella versione contemporanea, all’avvistamento di un oggetto che procede a gran velocità in rotta di collisione con la Terra, viene costituita un’unità di scienziati col compito di gestire la crisi; ne fa parte l’astrobiologa Helen Benson – Jennifer Connelly – fra le braccia della quale Klaatu cade, intercettato da un proiettile nel gesto di porgerle la mano.
Ma non crediate che sia l’inizio di una storia mélo fra i due , benché siano presenti tutti gli elementi atti a che lo diventi.
Una volta soccorso, Klaatu chiede di parlare a tutti i rappresentati della terra per comunicare il suo messaggio. In entrambe le versioni a farsi portavoce del pianeta è il segretario alla difesa degli Stati Uniti d’America, che in quella attuale è una donna, interpretata da Kathy Bates, la quale rifiuta il dialogo, adducendo ragioni di sicurezza per il “nostro pianeta”. Klaatu risponde perplesso che il pianeta non è nostro: ancora stordito dall’esperienza di indossare un corpo umano, si scontra nuovamente con la resistenza e la diffidenza che caratterizzano la specie che è venuto a mettere in guardia, ma di cui sperimenterà tanto i limiti quanto la profondità.
L’idea interessante e innovativa rispetto alla versione precedente è proprio quella che le sembianze umane dell’alieno non siano il frutto di un semplice mascheramento finalizzato a non spaventare gli autoctoni, bensì una forma che l’entità che la abita sperimenta in ogni suo aspetto, tanto fisico quanto emozionale. Se nel ‘51 il colpo di genio di Wise fu quello di mostrare il mondo in soggettiva attraverso gli occhi di un’entità ad esso estranea, uscendo quindi dallo schema duale tipico della s/f di allora, in cui l’altro rappresentava la minaccia dell’invasione (all’epoca, quella sovietica), Derrickson fa un passo oltre. Impone all’alieno un’esperienza di umanità, costringendolo a guardarci da dentro oltre che da fuori. Lui conosce dall’alto la nostra civiltà ma è diventando noi che la realizza e la comprende, come mai avrebbe potuto solo osservandola.
Un po’ come una certa corrente di pensiero crede faccia l’anima: scegliendosi un dove, un quando, un come e incarnandosi. E di certa filosofia è ben conscio nonché portatore l’attore protagonista, Keanu Reeves, la cui attiva collaborazione accanto a Derrickson, David Scarpa, sceneggiatore, David Tattersall, direttore della fotografia e David Brisbin, scenografo, si fa sentire in ogni ambito: dalla sceneggiatura, al profilo dei personaggi, fino alla scelta della sfera come forma da attribuire alla nave spaziale, scelta molto new age. Che guarda caso si rivelerà essere un’arca.
Qui risiede il fondamentale spostamento della metafora sottesa al film: dalla paura dell’altro generata dalla Guerra Fredda ai suoi esordi, al tema ambientalista, ormai di inquietante attualità e sostenuto dal film, non solo idealmente ma concretamente.
La produzione, in base alla strategia della casa madre della Twentieth Century Fox, la News Corp, che mira a diventare un’azienda che non produce emissioni di anidride carbonica entro il 2010, si è infatti scrupolosamente attenuta a principi di economicità nei consumi, ad esempio attraverso la diminuzione di materiali a stampa e il riciclo dei costumi e di riduzione delle emissioni inquinanti, grazie all’uso di mezzi di trasporto ibridi.
Un lavoro di squadra, reso possibile dal grande desiderio di collaborazione del regista che ha coinvolto, fin nel più piccolo dettaglio sia il cast che la produzione, che a sua volta ha giocato un ruolo fondamentale, portando idee e sviluppando in modo equilibrato un progetto tanto ambizioso. Ultimatum alla terra è infatti sicuramente un tributo a Wise e alla sua lungimiranza, ma anche un ottimo strumento per dire qualcosa di forte al pubblico a distanza di quasi 60 anni, in un momento molto delicato per la nostra civiltà.
Questa è infatti la chiave di volta dell’intero film: l’umanità, una specie che a differenza di qualunque altra in natura è capace di distruggere il proprio habitat fino a mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza, che resiste al cambiamento, non sembra imparare dalla storia e si basa fondamentalmente sull’egoismo, però non vive di sole ombre. Non si limita a ignorare, depredare, devastare: ha qualcosa in più.
Lo conferma l’altro alieno cui Klaatu chiede un rapporto poichè ha vissuto sul pianeta più di settant’anni, quando questi decide di procedere all’eliminazione della specie. Il suo simile rifiuta di abbandonare il pianeta pronunciando queste parole: “Ci sono stati momenti in cui ho maledetto la decisione di studiare questa specie, momenti di grande dolore, ma ora che questa mia vita umana è giunta al termine, sono felice di averla vissuta. Questa è casa mia. Io resto”.
Questo è il momento in cui il dubbio si instilla nella mente aliena di Klaatu, dubbio che sarà compito della dottoressa Benson coltivare perché a questa specie tanto ingrata sia data una seconda chance e il processo di distruzione venga interrotto.
È lei infatti ad avvicinarlo più di ogni altro, fin dall’inizio, mostrando, al di là della paura, un’apertura e un rispetto, legati alla sua professione ma forse anche a un sentirsi lei stessa alienata in qualche modo. E alla domanda di lei: “dobbiamo avere paura?”, Klaatu risponde con una frase criptica: “ Io sono amico della terra”.
Insomma, ciò che Klaatu è venuto a fare è proteggere il pianeta dalla nostra furia distruttiva ma l’esperienza nelle spoglie di un essere umano e il contatto ravvicinato con la Benson e il suo scontroso figliastro dodicenne – Jaden Smith – che non mostra affatto di apprezzare la nuova amicizia della matrigna e che a un certo punto lo denuncia alla polizia, metteranno alla prova la sua determinazione e inflessibilità di giudizio.
Ciò che passa, in ogni aspetto, è lo sforzo di mantenere un grande equilibrio nel messaggio da trasmettere: il rapporto tra i protagonisti ne è l’esempio più lampante. Ciò che smuove Klaatu non è infatti un trasporto sentimentale nei confronti della Benson, come sarebbe stato facile immaginare, ma osservarla nelle sue difficoltà nel rapporto con Jacob, dovute alla morte del padre e suo ex marito. E’ nel momento in cui i due superano la diffidenza reciproca, proprio sotto gli occhi di un Klaatu sempre più umano e quando il processo di distruzione è già iniziato, lì sull’orlo del baratro, che qualcosa accade.
Ed è in quel momento che le parole del dottor Barnhardt – John Cleese, fisico premio Nobel specializzato nello studio della base evolutiva dell’altruismo, dal quale la Benson lo porta perché cambi idea –
Siamo davvero arrivati a quel punto? E se è cosi saremo in grado di compiere il balzo che occorre per non soccombere alla nostra stessa auto-distruttività?
Derrickson a differenza di Wise non si limita a dare moniti ma lancia un grido di speranza.
Al pubblico decidere se premiare il tentativo, noi la nostra scelta crediamo di averla fatta anche se una cosa è certa… non basterà a salvare il mondo.
Crixina L