«Provo a tirare delicatamente i fili del concerto sovrumano: ora lo sento completamente dentro di me. Sento di poterlo controllare come un sogno mio. Provo altre variazioni progressive: faccio finire l’assolo di sax, ma tenendo sempre in corsa questa suite che non ha più nulla in comune con l’originale “Break On Through” dei veri Doors. Il Morrison onirico riprende a salmodiare appeso al microfono in un sussurro che levita su un tappeto di tastiere elettroniche kraut. Beat sempre più scheletrico, batteria e organo elettrico creano una base ritmica iterativa alla Suicide. Bene, posso modificare la musica liberamente, mantenendomi all’interno della scena. Allora posso provare ad inserire altri elementi…
Il ritmo accelera progressivamente, io accelero, la danza accelera, la fuga diventa un trip cosmico alla Hawkwind, il teatro non ha più le pareti, oppure ci sono proiettati sopra dolmen e menhir di Stonehenge illuminati da falò notturni.
…Intravedo altri della compagnia intorno al palco, mescolati fra il pubblico… il Synchro Dreamer ha funzionato, ci siamo tutti dentro».
Il brano sopra è un frammento tratto da Buio In Scena, mio secondo romanzo in progress: ho ambientato una scena onirica in un concerto immaginario. Quel che non sapevo quando l’ho scritto era che qualcosa di simile a quel che io credevo d’essermi inventato mettendo insieme degli opposti (come Suicide e space rock) era in realtà già stato registrato.
Ricordate Arthur Brown (magari col suo Crazy World)? Nel ’68 fece un milione di copie vendute col singolo Fire, infiammando (letteralmente!) la scena del rock coi suoi bizzarri travestimenti sciamanici e i copricapi infuocati (vedi foto qui a destra), a tutti gli effetti antesignani dello shock rock.
Guardate la galleria qui sotto: il primo è lui, poi vengono Alice Cooper, King Diamond, quindi Mickey E. Vil dei Mugshots… notate qualche parentela?!
E non solo dello shock rock: “gli Osanna (sotto a destra, NdR) aprirono un concerto dei Genesis a Genova”, ricorda Max Gasperini, boss di Black Widow Records. “Peter Gabriel e i suoi videro questo gruppo italiano usare del make-up in scena e presero da loro l’idea che poi portò alle sofisticatissime messinscene che ormai sono storia. Ma gli Osanna a loro volta avevano preso lo spunto avendo assistito ad una incredibile performarce di chi? Ma certo, proprio di ARTHUR BROWN!”.
Però il guru psichedelico non è stato solo un pioniere della teatralità rock: lo è stato anche dal punto di vista musicale. Ugola d’oro al pari di uno Ian Gillan o di un Robert Plant, dopo il suo incendiario rock blues coi Crazy World, Brown forma i Kingdom Come, coi quali pubblica una trilogia di album, il terzo dei quali si intitola Journey ed è il primo disco della storia del rock ad avere la parte ritmica interamente realizzata con una drum machine, la primordiale Ace Bentley. Era il 1973, ossia ben 4 anni prima del debutto dei Suicide, abitualmente accreditati come prime mover della scena della synth wave!
(oggi l’album si trova ristampato in doppio cd con inediti, singolo e bonus live per Esoteric Recordings/Cherry Red e sicuramente vale l’acquisto).
Il suono dei Kingdom Come di Journey era una curiosa miscela di progressive spaziale – tappeti di sintetizzatore alla Hawkwind e Gong su tutti – ma contenente appunto anche delle anticipazioni di suoni che la new wave post ’77 e il synth dance pop avrebbero imposto come trend alla moda al giro di boa degli ’80 (alla Video Killed The Radio Star per intenderci, dove peraltro i Buggles erano uno spin off dai tardi Yes!), contaminando anche la scena hard/heavy del passaggio fra ’70 e ’80 (pensiamo per es. ai Rush o agli UFO di Schenker).
Col senno di poi – cioè quello del nostro articolo di qualche mese fa sulle subliminali liaison fra prog e wave – dei precursori assoluti, con gli americani Silver Apples di pochi anni precedenti, una sorta di ponte fra Tangerine Dream, Deep Purple e il futuro Bowie berlinese (che già sentite vagire per es. in brani come Gypsy o Superficial Roadblocks).
Sfortunatamente, come spesso accade ai pionieri, il successo commerciale non arrise e oggi Arthur Brown viene ricordato più per le sue follie sceniche (fu anche arrestato in Italia per essere salito nudo sul palco per un concerto) che per i suoi meriti musicali e le sue varie collaborazioni, da Alan Parsons a Klaus Schulze e Bruce Dickinson, o i molti che l’hanno campionato (per es. i Prodigy).
Oggi però il tastierista del gruppo di allora Victor Peraino – in seguito collaboratore di Eno, dei citati Daevid Allen e Hawkwind, perfino dei Queen – riforma il gruppo con nuovi compagni di strada alla chitarra, basso e batteria (ora suonata) e spiana la strada ad un regale rientro in scena del vecchio amico Arthur Brown, cui pare che i 72 anni d’età non abbiano minimamente incrinato l’ugola cristallina, con cui riesce a spaziare dagli acuti squillanti (suo trademark storico) a tonalità più profonde, diciamo alla Ian Astbury, o anche più basse, ad es. quando interpreta una spazialissima versione (stranamente non accreditata ma è lei) di The Future di Leonard Cohen, una delle tre cover presenti nell’album: le altre due sono I Put A Spell On You (di Screamin’ Jay Hawkins, già presente su The Crazy World Of Arthur Brown) e Don’t Let Me Be Misunderstood (di Benjamin/Caldwell, anche se tutti la conoscono grazie a Nina Simone).
L’album (di cui vedete la cosmica copertina in apertura) s’intitola, guarda un po’, Journey In Time, con esplicito riferimento al suo diretto precursore di circa 40 anni fa, del quale riprende la seminale Time Captives, un’odissea nello spazio che parte con un secco beat (in cui il batterista James Pryor riproduce quello elettronico della storica Ace Bentley) e condensa in 7’39” (contro gli 8’21” del disco del ’73) minuti le passioni per la fantascienza, i viaggi spaziali e l’ufologia (che i musicisti condividono con l’amico Gasperini).
Miscela 40 anni fa avanguardistica e oggi di curioso modernariato vintage, in cui non manca una certa ampollosità tipica dei suoni di synth di quell’epoca (ogni tanto mi vengono in mente anche gli Europe), ma quando la voce del Brown prende il proscenio qualunque perplessità rimane alle spalle (canta in mezzo album e la differenza rispetto al cantato del tastierista è notevole).
Non cercatelo se vi aspettate un’evoluzione moderna dell’elettronica minimalista Suicide o dei Radiohead di Kid A (che probabilmente per produrlo avranno ascoltato l'album del '73). Ma se dovete accompagnare il viaggio cosmico di Interstellar…
Mario G