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Il mito di Michael Myers, il serial killer mascherato di
Halloween, nasce nel ’78 con l’omonimo film di
Carpenter, pietra miliare slasher che vanta 7 (perdibili) sequel e – come si dice – decine di imitatori dagli anni ’80 ad oggi.
Fino al 2007, quando (con Halloween the Beginning)
Rob Zombie dà la svolta decisiva a uno dei franchise più longevi del genere horror: personalità registica grezza ma già abbastanza robusta e sicura dei suoi mezzi, il metallaro risale alle origini del personaggio, ribaltandone completamente la filosofia. Da psicopatico silente, di cui noi spettatori conoscevamo solo lo sguardo in soggettiva e i pesanti respiri sotto la maschera terrorcarnevalesca, rappresentazione di un male e privo di motivazioni comprensibili, assoluto anche grazie alla sua apparente immortalità (quando sembra sconfitto il cadavere scompare sempre per risorgere nell’episodio successivo), Zombie ne fa un bambino disadattato per turbe familiari.
Fine del mistero. Si apre un nuovo corso.
Il rocker Zombie – pur venendo appunto dal nu metal (come spieghiamo diffusamente nel box che trovate su
Nocturno 86 e
online) –
fa il jazzista, ossia interpreta liberamente uno standard.
Se ci passate l’espressione ampollosa, sembra che Myers sia diventato ormai un classico, una sorta di novello Macbeth: ogni regista che lo mette in scena ne dà una personale interpretazione anche distante dal testo originario. Ecco perché l’
Halloween II uscito venerdì 16 nelle sale italiane non si può considerare il 10° episodio della serie: è il secondo dell’era Zombie. Anche l’ultimo, pare; avendo però il produttore Akkad chiaramente dichiarato che non intende fermarsi qui, vedremo cosà farà il prossimo regista.
Frattanto, quello che ha fatto Rob Zombie è stato andare fino in fondo alla propria visione dei personaggi: pagato il pegno al maestro Carpenter nel primo episodio, qui è totalmente libero. Ovviamente fa risorgere il Myers apparentemente ucciso dalla sorella alla fine del precedente film, così ridonandogli un po’ della sua aura di sovrannaturale Messaggero di Morte. Quindi lo manda in giro, muto ed inesorabile come sempre, a mietere vittime in vista della ricostituzione di una disperata unità del suo nucleo familiare primigenio, spinto dalle visioni della madre suicida (Sheri Moon), che gli appare con cavallo bianco e un Micahel bambino, nel ruolo di spiriti guida.
Unità che sarà piena solo riportando anche l’ultimogenita sorella Laurie all’abbraccio di mamma e fratello. E che, dato il tipo di famigliola, non si può avverare che nella morte. Che infatti è la vera protagonista di questi 100 minuti di bagno di sangue, in cui – partiamo dai difetti – la suspence vera e propria latita, nonostante la ferocia della mattanza: corpi massacrati, corpi insanguinati, ferite ricucite, incidenti d’auto, ospedali, coltellate… ma senza sorpresa.
Del resto, il personaggio non lascia dubbi: privo di un reale sviluppo psicologico, sappiamo che la sua missione è uccidere. Quindi, se viene inquadrata una finestra, sai che lui la sfonderà ed entrerà. Se un buttafuori gli intima d’andarsene, sai che sarà fatto a pezzi, se una ragazza strilla sai già cosa le capiterà. Come sai bene a chi spetterà l’onere di purificare il mondo dal Male. Come si suol dire, “non c’è storia”.
In assenza di reali sorprese o sviluppi che rendano il serial killer “interessante” come un Hannibal o un Enigmista, non restava che lavorare sugli altri. Sulla parallela discesa nella follia e nell’incubo della sorella Laurie, che alla fine condivide le visioni maledette del fratello (e qui non posso spoilerare oltre sul finale), e del perfido dr Loomis-McDowell, divenuto famoso scrittore sulla pelle (!) di Myers e ormai irrimediabilmente cinico.
È un mondo disperato e senza buoni, quello che ci presenta Rob Zombie, fangoso fin nell’anima, in cui gli infermieri sognano di scoparsi i cadaveri delle ragazze carine, i proprietari di night club le ballerine e i villici pestano i barboni. E nessuno può aspirare ad altro che morire in fretta.
Una totentanz in cui il lezzo di morte spazza ululando le strade dei vivi come dei (numerosissimi) uccisi. Se mi concedete un’espressione forse troppo lirica per un film così brutale, direi che quel che mi ha ispirato la visione è stata – più che paura – una profonda malinconia.
Ma, se da un lato “non c’è storia”, dall’altro ciò non impedisce al regista di lavorare sullo stile della messa in scena, anzi ne fa la vera protagonista della pellicola. Libero come non mai di mescolare tutti gli ingredienti del suo mondo, Zombie spazia nella musica da Vivaldi al garage, dai Teardrop Explodes ai Motorhead, dagli MC5 a Rod Stewart, da Beethoven a Captain Clegg and the Night Creatures (la band della festa), dai 10CC al punk degli Scream al metal dei Void; e poi poster di Alice Cooper e Frank Zappa, memorabilia rock ad ogni parete...
In verità, tutta la scena della festa sembra uscita di peso da un video clip dei White Zombie: nudies e burlesque, citazioni di
Rocky Horror (il costume dell’amica di Laurie), è tutta una celebrazione dell’universo rock’n’roll e dell’immaginario trash da b-movie (un po’
Dal Tramonto All’Alba, per intenderci) che il regista coltiva da sempre.
Anche dal punto di vista strettamente registico:
H II (girato in 16mm per avere l’immagine “sporca” voluta da Zombie) non è solo slasher e corpi martoriati: contiene scene autenticamente gotiche (Sheri Moon che appare circonfusa di bianco nelle tenebre, col cavallo e il figlio piccolo), accanto ad altre più da “country horror” (alla
Devil’s Rejects) e allucinazioni in bianco e nero quasi surrealiste.
Tutto ciò genera un “bel film”? Ci sarebbe mancata la visione di
H II se Rob Zombie fosse rimasto fermo sulle sue iniziali posizioni di rifiuto di tornare sul caso-Myers? Beh, come già sul prosieguo della saga di
Saw, è difficile dare una risposta univoca. Sia i detrattori (che hanno determinato l’insuccesso ai botteghini in USA e han dato voti “dal 4 al 5” intorno a me l’altra sera al cinema) che i sostenitori hanno frecce al proprio arco per discutere.
Ma è chiaro che Robert Bartleh Cummings in arte Zombie ha una sua mano registica, non è un regista di scuderia che “fa un sequel”. E capitalizzando il credito che ormai s’è guadagnato con le major, quando metterà mano a un progetto non “seriale” ce la sbatterà in faccia ancor più forte.
Mario