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Ancora vampiri? Se vi ponete questa domanda, o ve la pone chi considera i nostri amati succhiasangue ritrite fole “da ragazzini”, andate a vedere questo film di ragazzini fragili e “scary monsters”; e portate con voi gli infedeli. Scoprirete, scopriranno, che questo genere, praticamente nato insieme al cinema, riesce ancora a rinnovarsi dicendo al contempo qualcosa di profondo sulle nostre anime ghiacciate. Facendovi/li riflettere su chi alla fine è il vero “mostro” in questo freddo mondo.
Come abbiamo già notato in almeno un paio precedenti servizi sul cinema vampiresco (ad es. QUI e QUI), il vampiro è la creatura orrorifica che ha dato vita al maggior numero di declinazioni cinematografiche originali, ibridandosi con altri generi (fantascienza, erotico, commedia, action, musical etc.), superando i confini di ambientazioni spaziali (la classica Transilvania) e temporali (il non meno classico ’800 gotico) ed ergendosi anche a dimensione metaforica: del desiderio d’eternità dell’uomo, del male assoluto, dell’ignoto e del diverso.
Ed eccoci al punto. Proprio qui va a parare Lasciami Entrare: nella Stoccolma del 1982 si svolge l’asciutta vicenda di Oskar, solitario dodicenne vittima di bullismo a scuola, ed Eli, solitaria nomade vittima del suo essere un “mostro”. Che si nutre di sangue e deve continuamente spostarsi da un luogo all’altro per non farsi scoprire, accompagnata e mestamente accudita dall’anziano padre, dolente figura fra le più tragiche viste al cinema negli ultimi tempi. Un “mostro” imprigionato da anni ormai negli immutabili 12 anni di quando (chissà come) divenne vampira, imprigionato in una solitudine senza speranza. Condannata alla crudeltà della belva: uccido per sopravvivere, ossia per nutrirmi.
Crudeltà? O solo spietatezza della necessità di nutrirsi, nella jungla che è il mondo, sempre e dovunque? Eli uccide per mangiare, come il leone sbrana la gazzella, ma che dire della ridente crudeltà gratuita (“il sorriso insanguinato dell’innocenza”, avrebbe detto Kundera) con cui i coetanei vessano quotidianamente il mite Oskar?
Da questo confronto scaturisce il quesito morale fondamentale del film, in cui le scene di violenza sono tanto più toccanti in quanto prive di una costruzione di suspence, mostrate nella loro assoluta banalità, nell’orrore della quotidianità. Che quindi ti cadono addosso fra i silenzi e l’immobilità della vita nevosa della comunità nordica, usa alla più asciutta economia di parole gesti emozioni, più impreviste e shockanti di un inseguimento all’ultimo respiro. Una vita in cui le violenze fra umani, badate bene, fanno più male di quelle praticate da una vampira che morde le persone alla gola e smembra un corpo in pochi istanti.
Non è tutto naturalmente. Chi pensa “un altro filmaccio di vampiri” faticherà assai a credere che una storia di zannuti notturni possa contemporaneamente essere un toccante apologo sulla solitudine (degli scandinavi, degli umani), sull’accettazione del diverso (o fra “diversi”), su quell’aurora delle emozioni e dei turbamenti che è la preadolescenza in cui vivono dolorosamente i due (bravissimi) protagonisti? Altro che Moccia e Twilight: qui vediamo ragazzini veri (anche se coi canini), che guardano nel vuoto in silenzio per minuti pesantissimi, che si scambiano dialoghi disarmanti tipo: “Quando si sta insieme bisogna fare qualcosa di particolare? - …No. - Beh, allora stiamo insieme”.
Un’aurora circondata dall’orrore, dall’impossibilità di essere normali. Forse è quello, notava argutamente Crixina L, il senso della breve inquadratura in cui intravediamo il pube di Eli attraversato da una lunga cicatrice: anche se sboccia un sentimento, scordatevi la normalità, anche solo quella dei corpi.
È un’ipotesi, come molte se ne possono (debbono) fare per darsi ragione delle numerose situazioni che il regista Alfredson lascia non spiegate chiaramente, su tutte il difficile, scontroso rapporto fra Eli e suo padre, che uccide (maldestramente) per lei ma sembra ricevere solo disprezzo finché…
Ecco, fra i meriti del regista svedese va sicuramente messa la capacità, il coraggio di non spiegare tutto, contribuendo così all’atmosfera impressionista del film, mettendo noi spettatori un po’ in quella situazione di disagio adolescenziale di chi osserva un mondo assurdo e non riesce a capirlo. Ormai credevamo che questo si potesse trovare praticamente solo in registi orientali.
Fin qui la filosofia. Poi c’è il film. Lo so, la forma è sostanza, le due cose non sono scindibili. Solo mi sentivo un po’ in colpa di aver parlato solo dei “significati” della storia e non di uno stile originalissimo, ellittico, sobrio e dolente come raramente accade di vedere di questi tempi. Se ci passate il paragone banale, diremmo quasi un horror “alla Kaurismaki”. Banale perché è sciocco accostare un regista a un altro solo perché provengono entrambi dal profondo Nord. Come se ogni spagnolo dovesse essere rapportato ad Almodovar!
Però evidentemente qualcosa di comune c’è: questo ritratto di gente normale, esteticamente brutta (semplicemente ordinaria, quotidiana), tendenzialmente sempre un po’ triste, che conduce vite banali, fatte di gesti routinari, di frasi (poche) così piatte… capite quel che intendo, vero? Vite riprese da una fotografia fredda come l’aria in quelle strade: luce bianca, brutti arredamenti in toni pastello spenti, ombre profonde e livide.
Era da The Addiction di Abel Ferrara che – mutatis mutandis (e praticamente tutto è differente fra i due film) – non incontravamo una storia di vampiri di un tale livello di profondità. Vedetelo, lasciatela entrare anche in voi (la citazione allude al fatto che i vampiri non possono entrare in casa vostra se voi non li invitate, altra bella metafora): sarà difficile che ne ricapiti un altro a breve.
E difficilmente un regista americano riuscirebbe a conquistare tanta libertà dai clichè del genere.
Il Torino Film Festival, che l’ha presentato in anteprima in Italia, ha colto una vera chicca.
Ascoltate l'intervista di Debora Montanari a Mario sul film, come sempre, sul sito di CiaoRadio.
Mario G