“Confusion will be my epitaph”
(King Crimson)
Una gran voglia di anni ’70. Che non torneranno.
Questo è il concetto che mi gira nella testa dopo la prima della performance Blackout (al Teatro Litta fino al 19 marzo), primo capitolo del progetto Teatro Del Mondo di Antonio Syxty. Che porta in scena l’omonimo poema di Nanni Balestrini, composto nel ’79 sull’onda del famigerato processo del 7 aprile, intentato dal giudice Calogero non solo a terroristi ma a un mondo – “fiancheggiatori” nello slang giudiziario, “cattivi maestri” in quello giornalistico – un’intera epoca diremmo, che infatti il processo medesimo contribuisce a distruggere, assurgendo a simbolo della “fine violenta della grande ondata rivoluzionaria degli anni Settanta”, come dice Balestrini.
Il testo è agito urlacantato micromegafonato da 12 attori/performer tutti under 30, in grado di rendere l’ingenua carica vitale, anche fisica del turbolento e irripetibile periodo. Che Syxty impagina fra i segni di proteste più recenti – occupy, indignados, 99 percent e così via – frasi di Lennon, Žižek, Chomsky, volantini con la maschera di Guy Fawkes ideata da Alan Moore per il suo V per Vendetta e di lì diventata logo (stavo per scrivere brand!) di praticamente ogni manifestazione degli ultimi anni, al fine di non inscenare la cartolina nostalgica del “formidabili quegli anni” ma di riportarne lo spirito al presente, in cui tanto ce ne sarebbe bisogno, specie in questo tristo momento storico di muri razzisti e prevaricazioni economiche.
Eppure quella “grande ondata rivoluzionaria” non ritornerà: lo senti, prima di qualunque riflessione e parallelo storico, mentre ascolti malinconicamente i versi di Balestrini ripetuti dalle voci degli attori: sono frammenti che galleggiano nello spazio, ormai privi del contesto in cui furono (o parvero) sensati, generando accostamenti surreali, a volte satirici: “lo spiacevole 1968 non finirà più – ci hanno provato tutti a recuperare i giovani – è l'universo dei valori d'uso che si scontra con la fabbrica e la produzione – non fanno che pensare al giorno in cui lasceranno la Fiat per – nel 1979 si è esaurita anche la speranza della fabbrica come luogo in cui si lotta per il potere – i giovani escono dalla fabbrica e entrano nello spettacolo – lo spiacevole 1968 non finirà più – come un incubo di questa cultura e di questa società”.
Sono alcuni frammenti pescati dal testo (e da me remixati fuori ordine), costruito su 12 lasse poetiche (le strofe medievali delle chanson de geste) nutrite di fonti diverse (e tutt’altro che “poetiche”): frasi dei giornali dell’epoca sul movimento giovanile, la morte a New York di Demetrio Stratos e il concerto-omaggio al cantante degli Area all’Arena di Milano (sempre nel ’79), le sentenze giudiziarie nei confronti dei contestatori, le tecniche di repressione carceraria, il blackout di NY del ’77 (da cui il titolo), occasione di un enorme “esproprio proletario” di massa, le Ultime lettere di Jacopo Ortis e le notizie del disastro della stazione orbitale Skylab, precipitata sulla Terra sempre nel ’79.
Applicando tecniche di cut-up alla Burroughs/Gysin, Balestrini era già postmoderno nel ’79 nel manovrare il politichese movimentista, lo scandalese giornalistico, il burocratese poliziesco: la sua scrittura decreta la fine del senso del movimento di cui celebra la fine quanto la stretta repressiva delle leggi speciali. E ben esprime questa caratteristica la messa in scena agitata e anti-narrativa di Syxty, su e giù da un palco nudo e spoglio, occupied solo da un traliccio di tubi Innocenti: è una fabbrica teatro di proteste operaie, la struttura del palco del concerto per Stratos o una periferia urbana di una qualsiasi metropoli degradata dell’incontrastato Kapitale finanziario contemporaneo, sfuggente a qualsiasi contestazione, che si è mangiato i diritti dei lavoratori e il futuro dei giovani? O tutto questo insieme?
E, a margine della ricerca sempre in movimento del regista di MTM (qui teso a saldare il teatro con le sue passioni per le arti performative e l’installazione): accoglieranno il segno di questa necessità di riscatto i giovani coetanei dei dodici performer del Litta, “ribelli del futuro” come dice Syxty (nella foto a sinistra durante le prove)? O resterà tutto nelle memorie dei molti sessantenni in sala, che ricordano l’epoca, i discorsi, il concerto all’Arena e le struggenti canzoni di Bowie, Deep Purple, Led Zeppelin, King Crimson (da cui la citazione in apertura), Iggy Pop o Venditti con cui il regista ci pugnala tutti al cuore… ma che non faranno più nessuna rivoluzione?
Forse il Kapitale ha trovato che anche l’arte d’avanguardia è un prodotto ideale per “fornire a tutti i cittadini un canale istituzionale giuridicamente garantito mediante il quale divenga meno difficile l’espletamento del dovere di denuncia” (un po’ come le ironiche carte di credito pop dipinte dallo stesso Syxty per la mostra Money Transfer) e noi rivoluzionari rock in platea “un morto ridotto a un muto automa che segue docilmente tutti gli ordini non ha alcuna personalità è solo un braccio guidato da una mente che gli è estranea”(*).
La parola ai giovani là fuori. E al prossimo episodio di Teatro Del Mondo.
Mario G
P.S.: foto di scena ai lati dell’articolo di Angelo Redaelli, per gentile concessione di MTM.
(*) citazioni dal copione, per cui Posthuman ringrazia della collaborazione Antonio Syxty, Gaia Calimani e Maddalena Peluso.