“Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.”
(J. W. Goethe, Prometeo)
A distanza d’un anno esatto dal Prometeo di Noi Films Sas al Litta, il Teatro Menotti ripropone la tragedia eschilea nella versione del genovese Teatro della Tosse, diretta da Emanuele Conte. Una messa in scena ricca di ardite idee scenografiche: il palco è serrato da un traliccio di tubi chiusi da una griglia metallica (come vedete dall'immagine qui a fianco), che lo sdoppia su due piani, percorsi da questi dèi e titani de-divinizzati e coperti di sacchetti da immondizia neri, stracci, Oceano fende la sala dal fondo verso il palco trascinandosi dietro uno strascico di fogli di cellophane accartocciati, mentre Efesto – chiamato “il mostro” – entra in scena con una maschera da saldatore.
Un décor molto anti-classico e piuttosto industrial-punk, confermato dalla scelta di un violento brano di Lydia Lunch (dall’album Big Sexy Noise) come colonna sonora dell’iniziale cattura di Prometeo da parte di Kràtos e Bìa, che – come ormai ogni femmina violenta da Kill Bill in qua – brandisce una katana facendola sferragliare sul metallo dell’inquietante scena-prigione.
Prometeo, seminudo, infangato e sofferente, viene quindi incatenato in posa da crocefissione cristiana alla grata metallica e qui (a sinistra) rimarrà al centro della scena, illuminato da due proiettori ai lati, fino alla liberazione finale (un’ipotesi di finale del terzo, perduto capitolo della trilogia eschilea?). Ma la notevole modernità romantica dell’eroe in conflitto con l’ingiustizia dell’arbitrio della legge quand’anche di provenienza divina – che ha spinto alcuni studiosi a mettere in dubbio la paternità eschilea del testo – viene sottolineata da altre sfumature nella drammaturgia di Conte: ad esempio, quando Io viene definita “beata fra le donne” prima d’annunciarle il concepimento di un eroe che forse potrà liberare Prometeo dalla prigionia.
Allora Prometeo è un “pre-Cristo”, pronto ad amare l’imperfetta umanità a prezzo della propria stessa libertà? Ipotesi affascinante, che il regista corrobora appunto con alcuni interventi di modernizzazione sul testo di scena, filtrando l’originale tragedia del V sec. a.C. attraverso altri modelli, fra cui l’incompiuto poema di Goethe del periodo sturm und drang (di cui avete letto citazione in apertura), per mettere in luce “la ribellione al potere in senso assoluto, quello che va oltre l'uomo e riguarda un Dio tiranno, insensibile e distante” (dalle note di regia).
Peccato che a tanto ardimento scenografico (e ambizione filosofica) faccia fronte una recitazione un po’ scolastica (con qua e là anche qualche errore in scena) e sicuramente poco “tragica”, anzitutto da parte del protagonista Gianmaria Martini, al cui notevole physique du rôle non fa riscontro altrettanta forza drammatica (lontanissimo ahinoi il solenne Prometeo di Franco Branciaroli per Ronconi), ma anche un po’ degli altri attori impegnati: cioè Enrico Campanati (Ermes in poltrona in una bellissima scena ingombra di manichini) e Pietro Fabbri (Kratos e Oceano). Al mio occhio, la più convincentemente drammatica - oltre che dotata di pari physique du rôle - è Alessia Pellegrino (nella foto a destra), nel ruolo della parimenti straziata donna-giovenca Io (oltre che di Bìa).
Discorso a parte merita invece Roberto Serpi che, a parte il breve ruolo di Efesto, è quasi sempre in scena come corifeo del coro delle Oceanine del testo classico (naturalmente assente nel poverissimo teatro contemporaneo), e condannato – ma qui la scelta è registica, non debolezza interpretativa – a un (per me incomprensibile) ruolo semi-comico en travesti. Con un fazzoletto in testa interpreta infatti una sorta di pavida “beghina” (e come tale viene pure apostrofato da Prometeo nel testo), che compiange il dolore del protagonista, pur dedicando al contempo “prudenti” voti agli dèi imperanti, ché non si sa mai, non lesinando pure rapidi ammiccamenti al pubblico che strappano sempre una risatina complice. Ma il fatto che di fronte alla monoliticità di un eroe tragico un “Totò” faccia “’a battutina” che c’azzecca con il senso della tragedia, quand’anche modernizzata?
Se c’è una metafora sotto questa (per me discutibile) scelta, ammetto di non averla colta affatto.
Oppure dobbiamo meditare sul fatto che, in una società che ha perso il senso del sacro, dei laceranti conflitti morali posti dalla tragedia greca a noi non resta che… il fetish (elemento che avevamo notato anche nella regia di Pasquale Marrazzo)?
Un’operazione di attualizzazione visivamente forte ma a mio giudizio riuscita a metà, insomma, che sarà in scena al Teatro Menotti fino al 2 aprile.
Mario G