“I personaggi soffrono a non venire completati.
Sento le loro urla dalla cantina.
Chi si occuperà di loro?”
(Douglas Duvall, Heartbreak Hotel)
Anche stavolta vieni guidato dal demiurgo degli snaporaz: giù per una scaletta metallica verso un poco promettente scantinato del Teatro I, in cui si ambienta la quarta tappa del progetto performativo Heartbreak Hotel del giovane collettivo (di cui QUI trovate il nostro articolo sulla terza con link per risalire alle precedenti), intitolata La camera di Daisy e Douglas. Prima di entrare ti legge un brano di un libro del 2011, intitolato appunto Heartbreak Hotel e accreditato al danese Erik Maelstrøm, per inquadrare la situazione di partenza, che è quella della sparizione di una persona. E la nebulosità dell’indagine per ricostruirne le tracce, in un vortice di indizi, fotografie, brandelli di diario e lettere mai spedite è il fulcro di quest’ultima tappa dell’avvincente metaprogetto degli snaporaz.
Quindi, noi sei “detective” veniamo introdotti nella squallida stanza ricavata nelle viscere del teatro, la camera di Daisy e Douglas del titolo: un materasso sporco contro una parete, un individuo immobile e muto con occhiali scuri al mixer e Matteo Salimbeni degli snaporaz, nostro Caronte sulle tracce di Douglas Duvall dalla parte opposta. In mezzo, un paio di sedie, una macchina del caffè – che viene offerto anche a noi – un’altra parete fitta di foto di dive hollywoodiane dei tempi andati (qui a sinistra), un tavolo ingombro di fogli di taccuino, ritagli, annotazioni a mano.
Dall’inquadramento iniziale, e poi dalla lettura del dossier che ci viene consegnato all’ingresso nella stanza (foto a sinistra), apprendiamo che Douglas Duvall è appunto l’individuo scomparso: giovane scrittore americano, approdato ad Hollywood nel 1945 dopo il successo di una sua pièce a Broadway, con carta bianca da parte del tycoon della Paramount Zukor per trarre una sceneggiatura dal romanzo Il grande orologio di Kenneth Fearing (in Italia lo troviamo edito da Einaudi, copertina qui a destra), a sua volta un meta-noir spiraliforme che ha effettivamente dato vita ad un film (Il tempo si è fermato del 1948), ma precursore implicito di una schiera di "indagini metafisiche" che si ritorcono su se stesse, dal Blow Up di Antonioni a Un Oscuro Scrutare di Dick (libro, film e fumetto), dalla Trilogia di New York di Paul Auster (copertina sotto a destra) all'Elemento del Crimine di von Trier, dal Fear X di Refn fino alla trilogia sperimentale del Lynch maturo (Strade Perdute, Mulholland Drive, Inland Empire, non a caso citati in alcuni articoli come ispirati dal libro di Maelstrøm).
Purtroppo però il brillante autore, che negli appunti si dice intenzionato a scrivere una storia appunto sperimentale e antinarrativa, non arriverà mai in porto a quel progetto: apprendiamo infatti dal dossier che, fagocitato dalla “dolce vita” holliwoodiana a base di feste, cocktail e belle dame, comincia a procrastinare le consegne, evitare le telefonate, finché nel 1946 mette mano a un altro script tutto proprio, intitolato – guarda un po’ – Heartbreak Hotel. Ma poco dopo però sparisce, come sembra che accada a tutti quelli che s’imbattono nel misterioso albergo, “porto delle nebbie” dei sentimenti. Dov’è finito Douglas? E perché?
Gli indizi sono confusi, non si riesce a formarsi un’idea compiuta di cosa sia realmente accaduto. Ma tutto lascia supporre che la sparizione di Duvall sia legata alla sua passione per Daisy, aspirante attrice affascinate quanto sfuggente. “A volte sembra bella, a volte sembra brutta, a volte sembra che Daisy non sia neanche lì con te”, scrive di lei l’autore scomparso. Sarà vero che la starlette la sa più lunga di quanto appaia? La sua vocetta cantilenante da svampita ci arriva diffusa da un altrove misterioso… un momento, no: semplicemente dalla stanza accanto!
Da uno spioncino nel muro la vediamo seduta nella vasca da bagno della camera adiacente, tutta bianca e spoglia. La sua voce risuona nella nostra stanza, mentre con la cornetta del telefono appesa accanto allo spioncino anche noi possiamo parlare con lei. “Chi sei? Come ti chiami?”, ci bersaglia di domande. “Ma dove sei? Sei solo lì?...”, sempre con quella cantilena strascicata da Marilyn Monroe sciocchina.
Obbligati ad improvvisare un’interazione con la donna oltre il muro (Gilda Deianira Ciao), ne scaturisce un dialogo dell’assurdo che non ci porta verso lo scioglimento del mistero ma anzi lo sfrangia ulteriormente in una miriade di schegge di specchio deformante senza capo né coda (che potrebbero benissimo fungere da spunto agli snaporaz per un remix multimediale in una prossima installazione).
C’è parecchio da leggere, stavolta, nella camera di Daisy e Douglas, prima di potersi muovere fra i brandelli di memoria astutamente seminati dagli snaporaz intorno a noi nella “scena del crimine” (ma quale? In verità non c'è sangue fra le tracce... se non quello suggerito dal birichino jazz manouche che ci accoglie nella stanza, Fool For A Blonde di Roger Bartlett, famigerato tema del Non Aprite Quella Porta di Tobe Hooper) e prima di essere chiamati a dialogare per alcuni minuti con la Daisy dei misteri.
Misteri che a ben guardare s’infittiscono anche sullo scrittore danese a monte di tutto, infatti provate a cercare su Google Heartbreak Hotel di Erik Maelstrøm: cosa trovate? Ad esempio, il periodo “Questo posto è squallido. Mette l'angoscia. C'è un vortice di ricordi che non sono miei. Lettere. Ritratti. E niente forma una storia" l’avrà scritto lui o… chi?
Per questo nel titolo definiamo l'installazione degli snaporaz un "mystery metaletterario" che in qualche modo si collega alla rielaborazione di Alan Moore sul Necronomicon lovecraftiano: piccolo ulteriore mistero nel mystery, a voi scoprire come.
La camera di Daisy e Douglas è “libera” al Teatro I fino al 21 settembre: ingressi ogni ora per un massimo di sei spettatori ogni turno, a partire dalle h 18.00. Scenderete anche voi ad indagare?
Mario G
N.B.: vi segnaliamo che, se desiderate ripassare le precedenti tappe del progetto Heartbreak Hotel, il primo capitolo - intitolato Stanza 207, quello più vicino a una classica pièce di prosa contemporanea - torna in scena al Teatro I dal 21 al 26 febbraio 2018.
P.S.: Posthuman ringrazia il Teatro I e snaporaz per le foto della performance che illustrano il nostro articolo, segnalando (per amor di precisione) che esse non fanno riferimento alla sua messa in scena di sabato 16, cui abbiamo assistito, e in cui scena e costumi sono dunque differenti, a parte il dettaglio degli appunti (foto scattata da M. G. con il cellulare) e quella della "donna in rosso" (dalle prove).