La conferenza stampa (foto a lato) di Roger Waters e Nick Mason, ovvero due terzi dei Floyd ancora in vita, che si è svolta al MACRO di Roma il 16 gennaio per presentare alla stampa e agli addetti ai lavori la mostra Their mortal remains - The Pink Floyd Exhibition, è stato un evento epocale. Non si può definire in altro modo lo show dell’eloquio di Waters, durato trenta minuti, cui ha fatto da contorno il sornione Mason, come sempre impegnato a tenere insieme i pezzi di una storia apparentemente esaurita e che sopravvive soltanto nei rivoli di una discendenza musicale, culturale, empatica, che vede tuttora Waters e David Gilmour, il terzo superstite, impegnati in una lotta che esaspera ancora di più le differenze creative all’interno del nucleo dei Floyd, precedentemente granitico per almeno quindici anni.
Che cosa hanno detto alla conferenza stampa, quindi, Mason e Waters? Come dicevamo, il primo è stato sornione, ha risposto a domande tutto sommato tecniche o di circostanza, descrivendo perlopiù l’arredamento del Piper (famosa discoteca di Roma dove i Nostri suonarono nel ’68) o negando decisamente un nuovo intervento tecnologico sul meraviglioso Pink Floyd at Pompeii. L’altro, invece, sa come tenere ben salda la scena, lo ha fatto insieme agli altri della band per tutti quei fatidici quindici anni, guidandola col suo genio deviato, imparando a farlo anche sotto i riflettori da quando ha abbandonato bruscamente i suoi compagni, un giorno del 1985. Da allora, Roger ha lavorato come un minatore, ha fatto concerti, tour in quantità industriale riproponendo i suoi cavalli di battaglia e ora, nell’appena concluso 2017, ha tirato fuori Is this the life we really want, un nuovo disco pregno di sonorità floydiane e di poesia interiore, lacrime, brividi e anche una voce superba e matura (Waters ha 74 anni) che non ti aspetteresti. Lui sa quindi come tenere in pugno la platea, lo fa da cinquanta e più anni, lo ha fatto anche urlando e strepitando contro uno spettatore al gig floydiano di Montreal, nel 1977, quando era al parossismo della personale paranoia che lo portava a dissociare il suo ego da qualsiasi fan, da ogni componente del gruppo, cullandosi in un terrificante delirio psichiatrico da cui poi sarebbe nato The wall.
Roger Waters, il 16 gennaio 2018, ha tenuto la platea legata a sé con un’autorevolezza dietro cui c’è l’autorità di un artista che non ammette repliche. Non ha rinnegato il passato, non lo ha mai fatto, semplicemente intravede in tutto quello che è stato qualcosa che lo ha aiutato a essere ciò che è ora; ha fornito chiavi di lettura delle antiche creazioni floydiane che forse non sono così remote, ma di certo non sono facilmente riconoscibili: quando tutti pensavano che le sonorità rarefatte degli anni ’70 fossero l’espressione di una cultura trascendentale, dello sballo o delle visioni acide figlie degli esordi psichedelici barrettiani, Waters prendeva invece sempre di più le misure del reale gettandoci dentro la sua passione politica, il proprio senso socialista della vita, la disperazione di aver perso il padre in una guerra generata da qualcosa di ineffabilmente mostruoso e vinta da una società che, ben presto, si è rivelata finemente crudele, forse più dei nazisti stessi: una società che nel Dopoguerra diveniva sempre più fascista e maniaca del controllo, dedita al culto del Profitto.
Roger ha confessato alla platea del MACRO quale fu il momento in cui questa presa di coscienza mista a surrealtà avvenne, citando un estratto del testo di Echoes (LP Meddle, 1971) che recitava:
“Strangers passing in the street
By chance two separate glances meet
And I am you and what I see is me”.
Non era quello un inno alle visioni empatiche dell’LSD, bensì un’urgente e concreta richiesta di fratellanza, era il guardare l’altro come se stessi; per questo, già da quegli anni la necessità di eguaglianza per Waters diveniva sempre più urgente, sempre più politica, sempre più legata alle discendenze del Flower Power da cui i Floyd, indubbiamente, discendono.
Quello lì fu quindi il punto d’inizio, e quello mostrato pochi giorni fa a Roma è da considerare l’attuale stato dell’arte dell’evoluzione floydiana e di Roger stesso, che snocciola risposte di questo tipo:
– Non siamo molto interessati all’eredità che lasciamo. Siamo più attratti dal presente e dal guardare avanti.
– Non m’interessa il passato, non voglio vivere imprigionato in questa mostra. Sono attirato dal presente, ho una carriera, ci sono ancora tante cose da dire e fare. M’interessate voi e quello che pensate dell’oggi, non del passato.
– Questo non è il mondo in cui voglio vivere, un mondo fatto di guerre per il petrolio e di idioti.
– È stato bello vedere alcuni oggetti che non guardavo da tempo. Mi ha riportato alla mente molte immagini ed emozioni che vagavano nella mia memoria.
– Sono un po’ preoccupato per le nuove generazioni, sono troppo impegnate a guardare gli iPhone; così, il rischio di cadere in una scogliera senza accorgersene è reale. Ci troviamo tutti su un treno espresso che corre verso l’estinzione e non ce ne accorgiamo. La storia che viviamo tutti i giorni è di estrema precarietà.
– M’interessa fortemente quello a cui sto lavorando oggi, sono più affascinato da me e da voi, mi coinvolge il tema degli uomini come individui. Voglio entrare in un’empatia con tutti gli esseri umani. L’uomo esiste sulla Terra da 100-150mila anni ed è accertato che sia apparso per la prima volta in Africa, dunque tutti in questa sala sono africani: siamo tutti africani. Ho la sensazione che a un certo punto ci dovrà essere un risveglio.
– Non abbiamo bisogno di educazione, non abbiamo bisogno di essere sorvegliati (Another brick in the wall, 1979. Ed ecco Roger che evoca la caduta dei muri che ci costringono all’abbrutimento).
– la Mostra mi sembra un miracolo tecnologico, ma sinceramente non m’incuriosisce molto la nostra eredità e il nostro passato; m’interessa il presente, sono un uomo ancora relativamente giovane e penso di avere tanto lavoro davanti a me. Sarò in tour per i prossimi due anni e ho appena pubblicato un nuovo album. Sono anche molto concentrato sulla questione dei diritti umani. Non c'è niente di sbagliato in questa Mostra che appassiona tanta gente, ma a me sinceramente non attira molto perché, come ho già detto, sono molto più interessato a me e a voi.
– La mia ossessione è entrare in empatia con gli altri. Non si può vivere in uno stato di guerra permanente: io vivo negli Usa e la maggior parte delle tasse che pago viene investita in guerre. Ecuador, Siria, Palestina, se smettessimo di concentrare tutta la nostra attenzione sulle foto dei telefonini potremmo dedicarci anche ad altro: per esempio renderci conto che ormai siamo in presenza di un proto fascismo.
Ecco qual è l’empatia di Waters, adesso, in questo preciso momento storico. Ecco quali sono le tempeste artistiche che attraversano la sua sensibilità, il suo bisogno estremo di farsi sentire dal mondo intero tramite le melodie, i testi, i concerti, con le sue prese di posizione sociopolitiche che somigliano sempre di più a comizi. In questo, la lezione dei rockers che fanno in qualche modo politica – mi viene in mente Bono Vox degli U2 – è pienamente assimilata da Waters, però è virata su una mediaticità inversamente proporzionale ai suoi show stellari, in cui la tecnologia e la creatività continuano ad andare a braccetto per regalare alle platee mondiali uno spettacolo sempre più superbo, la più alta catarsi visionaria e trascendentale tramite le emozioni fomentate dalla musica che Roger continua a produrre, quella sì ancora figlia delle percezioni surreali del quartetto inglese.
Inutile aggiungere che poi alla conferenza stampa si è parlato anche del papà di Waters, soldato di Sua Maestà la Regina, morto vicino ad Aprilia (nei pressi di Roma) verso la fine del 1944, che per l’artista inglese è stato un terribile evento tale da segnare profondamente la sua vita: a Roger sono quindi state fatte domande che vertevano sul legame tra lui, suo padre e l’Italia, ma a mio modesto avviso sembravano più schermaglie di un dannoso e inappropriato campanilismo italiano che altro, cui l’ex Pink Floyd ha trovato il modo di dare un respiro internazionale, appunto denunciando ferocemente le politiche guerrafondaie e dispendiose degli USA.
Cos’altro aggiungere della conferenza stampa, quindi, se non che stare davanti a due degli esponenti della rock band che ritengo la più importante di sempre, che ha realizzato il brano più bello mai sentito sul pianeta (parlo proprio di Echoes), che ha espresso così tanto concependo nuovi e intellettuali generi musicali e che, a dispetto di quello che pensano gli stessi componenti dei Floyd, non ha prodotto musica pop, è stata un’emozione fortissima: “Sono un vecchio fan che vede davanti a sé gli artisti chi gli hanno maggiormente ispirato il personale percorso artistico ed espressivo”, questo ho pensato con gratitudine vedendo finalmente Mason e Waters parlare magnificamente del passato e soprattutto del futuro, facendomi così capire che, davvero, il bello deve ancora venire.
QUI potrete trovare il video dell’intera conferenza stampa, anche se il sonoro non è molto comprensibile; per quanto invece riguarda la Mostra vera e propria, sappiate che in Rete potrete trovarne miriadi di descrizioni, una moltitudine di articoli o di video in cui la spettacolare ed esclusiva bellezza surreale dell’esposizione esplode, coinvolge, esibisce ogni suo lato onirico, psichedelico, metaforico, spettacolare, meraviglioso, intimo, disperante.
Per tutto il movimento degli stili musicali che è venuto dopo il glorioso 1967-1979 dei Floyd, sappiate che nugoli di artisti e sonorità devono la loro esistenza a Waters e Gilmour, a Mason e Richard Wright, comprimari floydiani di lusso e creativi a loro volta; e lo devono soprattutto al geniale e immaginifico fondatore Syd Barrett. Perciò, per me che amo il goth, l’industrial, l’elettronica più o meno eterea, le temerarie sperimentazioni sonore siderali, disincarnate e inumane, ogni base concettuale che m’ispira fa in definitiva i conti con quello che nel tempo il quartetto floydiano ha saputo esprimere.
Potete soltanto immaginare l’incanto che ho provato, visitando la Mostra, nell’ascoltare interviste, gustare video rarissimi e illuminanti sulla golden age della band, guardare dal buco della serratura temporale con quale moto ingegnoso le loro idee creative prendevano vita, a volte attraverso disegni o semplici schizzi, a volte con folgorazioni che mostravano il punto di formazione tra un’inventiva ancora in embrione e la sempre incipiente iperbole esponenziale del loro talento, come poteva per esempio essere l’allestire veri e propri teatri sul palco per The wall (1979), figlio del precedente tour Animals (1977) in cui i Floyd compresero che potevano ardire e progettare un nuovo livello di spettacolo totale, complesso, artistico come nessuno al mondo aveva mai immaginato prima e che, credo, nessuno al mondo ha saputo realizzare meglio dopo.
Sappiate che la tecnologia regna sovrana in Their mortal remains: le cuffie date in dotazione al visitatore sono così sensibili da captare il tema musicale diffuso dall’allestimento che state visitando, e mentre ci sono alcune memorabilia davvero particolari (chitarre, bassi, tamburi, tastiere, ammennicoli tecnologici dell’era protostorica musicale di mezzo secolo fa, oltre a vestiti indossati dai singoli componenti della band e ad altre cose da fan di questo tipo), sappiate che lo squarcio su un mondo psichico così unico e invasivo, proveniente direttamente dalla mente dei Floyd, è garantito anche dai ritrovati tecnologici che i partner tecnici della Mostra hanno approntato: su tutte, la soluzione immersiva che vi farà percepire la scena come se foste stati sotto il palco, in una sorta di sonorità 5+1, ad assistere all’ultimo brano – Comfortably numb – che la band ha eseguito live, nel luglio del 2005 ad Hyde Park, quando i quattro (senza Barrett, ovviamente) si sono riuniti per l’ultima volta al concerto di beneficienza Live 8, evento curato da un altro figlioccio dei Floyd, quel Bob Geldof che ha recitato così bene la parte di Pink nel The Wall cinematografico di Alan Parker. Quando sarete in quel frangente, cercate di rimanere tra l’abisso di buio e i coni di luce sparati nella stanza musicale: mentre le orecchie si strazieranno con l’assolo stellare di Gilmour, potrete così vedere e comprendere come lui sia stato l’ultimo dei Pink Floyd a chiudere gli occhi nella visione delle loro stesse sonorità, l’ultimo dei quattro a lasciarsi andare nella consacrazione finale delle incommensurabili estasi vissute in mezzo secolo di storia surreale, eppure così umana e aderente a ciò che intimamente siamo, che li ha visti protagonisti assoluti dell’estasi.
Quello lì, comprenderete allora, è stato l’epitaffio che ci si aspettava dai Floyd; da quel momento lì si è partiti per un altro viaggio, che però potrete individuare serrando ancora una volta le palpebre nel solo di Gilmour, nella sferzata sonora e ritmica che gli supportano i suoi compagni, sentendovi prigionieri dei brividi che vi devasteranno l’anima nell’infinito svolgere del tempo dilatato.Shine On…
Per informazioni sulla Mostra al MACRO di Roma, in via Nizza, cliccate QUI (mentre QUI vedete l'intervista di Ernesto Assante a Waters per Rep.tv e QUI quella a Mason); l’evento sarà visitabile fino al primo luglio, poi probabilmente dovrete volare a Parigi per la nuova edizione dell’esposizione. Ma, in fondo, non sarebbe male assistere a un’altra conferenza stampa, forse addirittura migliore di quella di Roma; o no?
Sandro Battisti (*)
Tutte le foto dell’allestimento sono di Ksenja Laginja
(*) Sandro Battisti, Premio Urania 2015 per L'Impero Restaurato, è uno dei fondatori del Movimento Connettivista. Entrambi collaborano al nostro saggio su rock e fantascienza, previsto in uscita per l'autunno 2018.