Charlotte si erge sul proscenio sempre alta e magra come l'abbiamo amata al cinema, in abito maschile nero, col consueto taglio "da maschietto" dei capelli biondicci. Un pierrot lunaire, o meglio un "Jean Genie" che potrebbe essere sbucata da un video del Bowie maturo (che giocava sullo spiazzamento d'identità con Tilda Swinton). Sobria e asciutta come la gran signora che nulla ha più da dimostrare al mondo dello spettacolo. Come la "Dark Lady" cantata dal Bardo di Stratford-upon-Avon.
Ieri sera prestigiosa serata unica per il Teatro Franco Parenti: la Rampling, in scena ad interpretare un florilegio di sonetti d'amore di Shakespeare, è stata introdotta dalla direttrice André Ruth Shammah, che ricorda i suoi numerosi passaggi a Milano, per La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, Yuppi Du di Celentano, fino all'immortale Portiere di Notte della Cavani, che la consacra icona ambigua di un erotismo malato e fatale.
Allure che nel '75 l'avrebbe portata ad interpretare anche Un'orchidea rosso sangue di Patrice Chéreau, che fu regista più noto in teatro che al cinema, nei tardi '60 assistente alla regia di Strehler, quindi indicato da Shammah come "uno dei miei maestri" (curiosamente del misconosciuto film ha ricostruito la storia la rivista Nocturno in 3 puntate, l'ultima proprio sul numero di giugno ancora in edicola*).
Tutto si collega.
Sul palco spoglio e quasi buio, due sedie, due microfoni e due lucine bianche, una per il leggio della violoncellista, l'altra per il libro dei sonetti che tiene in mano l'attrice, la quale lo consulta a tratti. Sul fondo, un'intera parete composta di volti, foto e ritratti in bianco e nero, di grandi della cultura (qualcuno riconosce il volto di Kafka, qualcuno del da poco scomparso Peter Brook), a cui la Rampling talvolta si avvicina deambulando per il palco durante l'interpretazione delle poesie, indicando ora un volto ora l'altro, come se tentasse di avvicinarsi a qualcuno dei suoi miti.
Infatti, buona parte dei carmi del Bardo da lei recitati vertono sul rapporto fra l'amore e il tempo: nel primo Shakespeare si chiede come potranno le sue umili parole dar conto della bellezza della persona amata (e come potranno allora le nostre ben più umili, dar conto della sua, di bellezza?!). Concludendo che, grazie ai versi, almeno, quella bellezza verrà eternata nel tempo, più duratura della pietra e del marmo dei monumenti. Un po' come l'algida bellezza della Rampling che - almeno vista a una quindicina di metri dal palco dove si trovava il vostro osservatore - sembra sempre uguale a se stessa.
Charlotte recita in un pulito inglese abbastanza fluido da essere (almeno parzialmente) compreso anche dal non madrelingua, comunque sostenuto dalle traduzioni che la regia proietta alle sue spalle sulla parete nera dei volti famosi. I testi tradotti (da Alessandro Serpieri) talvolta sono simultanei, talvolta appaiono a lettura compiuta, mentre noi ascoltiamo l'essenziale, severo e struggente accompagnamento musicale fornito dalla fida violoncellista Sonia Wieder-Atherton (insieme le due già avevano lavorato su poesie di Sylvia Plath e musiche di Britten), anche direttrice musicale dell'operazione, che si prodiga in quattro suite di Bach, nell'arrangiamento di Hor Chel Ciel Et la Terra di Monteverdi per la voce sola della Rampling (che qua e là accenna brandelli di canzone a mezza voce) e in una composizione propria.
Nient'altro, nessun orpello per cercare di "arricchire" ciò che più ricco non si potrebbe fare: i versi immortali di un monumento della letteratura mondiale, che con la semplicità dei grandi parlava di amore e tempo nel '600 come se ne potrebbe parlare anche oggi o fra un secolo sulla Nostromo. Pochi effetti sonori - uno scroscio di pioggia, voci di bambini qua e là, un leggero pattern ritmico - a sostenere le profonde cavate del violoncello della Atherton o a separare un brano dall'altro. Che, quando lo ascoltiamo senza aver ancora letto la traduzione sul fondale, fa a noi italiani lo stesso effetto di quando si ascoltano Dylan o Cohen (o chi vi pare) senza avere sotto il libro dei testi tradotti: puri suoni, di cui noi ci godiamo il feeling prima d'arrivare alla comprensione logica, come a nessuno di Stratford (o New York, o Montreal) potrà mai accadere, come impara a fare ognuno di noi fan del rock straniero ai confini dell'impero.
Insomma, come ottenere il massimo dal minimo in un'oretta circa di performance. E spingere il vostro osservatore a nuove, drammatiche riflessioni: solo un paio di settimane fa - da appassionato del fantastico - avevo avanzato critiche su uno spettacolo nuovo, con testo originale, scritto e diretto da giovani artisti, a tema fantascientifico. Oggi mi trovo ad elogiare un testo straclassico (Shakespeare, probabilmente l'autore più rappresentato dal teatro mondiale), recitato da una diva quasi ottantenne accompagnata da musica classica del '700. Starò evolvendo verso la maturità dello sguardo, sarò diventato "classico" (= vecchio) anch'io?
(Il primo che risponde "sì" qua sotto verrà incarcerato in una segreta di Piranesi e punito con la proiezione a loop continuo dell'opera omnia di Ozpetek!)
Grande spettacolo per cui dobbiamo ringraziare il Parenti e la Shammah, se lo ritrovaste nel corso di qualche viaggio in Europa quest'estate non perdetelo.
Buone vacanze e restate connessi: a breve festeggeremo anche il debutto della Posthuman Edizioni col nostro Buio in Scena, romanzo+drammaturgia illustrata (e disegni per la mostra al Premio Torre Crawford 2022 del prossimo settembre) di Roberta. Diventeremo classici del teatro nel teatro anche noi, fra qualche secolo?
Mario G
* Un'orchidea rosso sangue (La Chair de l'orchidée) è la versione cinematografica di La carne dell'orchidea, romanzo di James Hadley Chase (pubblicato ne I Neri Mondadori n. 21, 1966), sequel del fortunato debutto nel giallo dello scrittore inglese, cioè Niente orchidee per Miss Blandish (1939, edito da noi nel '62 come I Capolavori dei Gialli Mondadori numero 206), che venne portato a sua volta al cinema due volte: la prima nel 1948 (peraltro anno di pubblicazione del seguito The Flesh of the Orchid), per la regia di John Legh Clowes; la seconda nel 1971 come Grissom Gang (Niente orchidee per Miss Blandish), per la regia del grande Robert Aldrich, con Tony Musante non protagonista.
Nel "barocco e teatrale" noir Un'orchidea rosso sangue la Rampling recita diretta da Chereau accanto a Simone Signoret, Bruno Cremer ed Edwige Feuillère, vecchia gloria del cinema francese.