“12 ore alla fine”, toccante apocalittico australiano (in sala dal 20 novembre dopo un passaggio al
S+F di Trieste), alle stragi cannibaliche tipiche del genere preferisce un dolente risveglio dei sentimenti sul ciglio del baratro.
Un meteorite ha colpito la terra nel Nord America. Un’enorme onda infuocata sta sbucciando la Terra come un’arancia distruggendo ogni forma di vita. L’Australia – dove si svolge il film (girato a Perth) – sarà l’ultima landa a sparire nella distruzione totale: all’inizio della pellicola, i suoi abitanti si accingono a vivere le loro ultime 12 ore di vita prima dell’apocalisse.
Cosa ne faranno? Il peggio, come ci si può aspettare da questa razza di squallidi idioti chiamata umanità: barbarie ed omicidi per strada come ne
La Notte del Giudizio, orge selvagge e disperate, stordimento tossico per non pensare alla fine, scritte “Jesus loves you” sventolate (qui a destra) non meno follemente nel deserto urbano che anticipa la fine. Forse prevedibile, ma non certo un quadretto edificante ad illustrare la massima “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”.
Non ci sono gli zombi di
28 Giorni/Settimane Dopo o gli infetti di
Carriers (film più apertamente horror) ma i vivi “normali” non ci fanno mancare nessun orrore dal menu. Non c’è quindi una trattazione “intimista” come in
4:44 Last Day On Earth di
Abel Ferrara o
Melancholia di
von Trier, entrambi focalizzati su una fine del mondo vista attraverso la lente degli affetti e dei rapporti uomo-donna: abbiamo un curioso plot apparentemente più action all’inizio che diventa invece sempre più intimista marciando verso la fine (in tutti i sensi).
E già quest’inizio ci pone davanti a due riflessioni di non poco conto: la prima è che sarà banale (lo sappiamo che tira aria grama di crisi e non solo qui, no?) ma questa frequente evocazione della
fin du monde al cinema (pensiamo anche al bellissimo
The Road, al mediocre
E venne il Giorno…) riflette uno
zeitgeist davvero color piombo. La seconda è che la cartina al tornasole della disperazione totale, che porta all’inconsistenza di ogni responsabilità morale per i propri atti (tanto tra poco sarà comunque tutto finito), dà la stura nell’umane menti ad un bel pozzo di nefandezza. Verrebbe da concludere, con le parole rassegnate della madre del protagonista, che davvero
“forse la fine non è arrivata abbastanza presto”.
E il circa trentenne, muscoloso James come reagisce all’inconcepibile? Mica tanto da grand’uomo anche lui: si scopa una bellissima amica, che non è nemmeno la sua vera fidanzata, scopre che lei è incinta, decide che era meglio non saperlo neppure (tanto tra poco…), rifiuta la sua richiesta d’affetto e decide di unirsi alla fidanzata legittima, impegnata a strafarsi al party del gran finale organizzato da quel folle pistolero con cresta verde di suo fratello (entrambi sopra a destra), il quale s’illude di scamparla ammassando viveri nello scantinato. Intorno a loro gli invitati
bevonosniffanofornicano, fanno il bagno in piscina (alcuni tutte le cose insieme), si sparano colla roulette russa (o a casaccio). A lei basterebbe scopare con lui, stonarsi e bere fino alla fine con lui.
Ma James no. A lui questa soluzione, che pure era la sua idea iniziale, adesso non va più giù. Perché lungo la strada è incocciato in Rose, una bambina sui dieci anni smarrita. Due bruti l’avevano rapita, s’intuisce per abusarne. Lui, eroe riluttante, riesce a stenderli e liberarla. Lei cerca il papà, che però è lontano. La macchina non ha abbastanza benzina, ma la festa della fidanzata (foto in alto a sinistra) non è posto per bambini. E ormai neanche per James, che adesso ha qualcosa di più sensato da fare che bere e stonarsi, prima della fine.
Lungo la loro “road to nowhere”, le stazioni della tragedia: la sorella di lui, suicidata in bagno con la famiglia, un’altra famiglia in un centro per l’infanzia in cui il padre non trova il coraggio di compiere la strage che gli sembra inevitabile per sollevare moglie e figli dalla fine incombente, la madre di James che pensa di passare le ultime ore a terminare un puzzle. E James attraversa la follia sempre più costernato, perché lì intorno sembra l’unico a conservare un briciolo di rassegnato sale in zucca.
In verità, in questo molto lo aiuta a risvegliarlo Rose stessa, efficacissima epigona dell’inesauribile genìa cinematografica della “bambina candida ma tanto più matura della sua età che riesce a far maturare persino i suoi stolidi tutori”. Ok, io qui lo dico con ironia, perché un pizzico di cliché c’è, ma in realtà il debuttante regista/sceneggiatore australiano
Zak Hilditch sa sviluppare i suoi caratteri con solido mestiere, pure con qualche insospettata finezza: come ad esempio quando, di fronte all’ecatombe della famiglia della sorella, James manda Rose a fare il bagno in piscina per risparmiarle la vista dell’obbrobrio. E lei, da vera bambina – nell’incubo che li circonda – si preoccupa di non avere il costume da bagno. James stralunato le dice “puoi entrare anche così vestita”. Al che lei sbotta “davvero posso?”, come se questa ghiotta sorpresa fosse la più sorprendente stranezza agli occhi di una bambina che ha smarrito il padre, stava per essere violentata da selvaggi, ha visto suicidi, pazzi, drogati eccetera.
E quest’efficacia salva il film dal (palpabilissimo) rischio del lacrimevole mélo all’americana “pseudopadre si prende cura di pseudofiglia trovatella ad ogni costo in ambiente ostile”. E anzi gli guadagna una capacità di commuoverci per davvero, rifiutando soluzioni consolatorie dello scenario disperato su cui è imperniato. Il padre della bimba? L’amante incinta? L’eroe e la bella bimba? È possibile una salvezza per qualcuno? E come? Qui,
noblesse oblige, non si può andare oltre. Ma sappiate che il giovane
Hilditch, ben dirigendo un cast di funzionali volti semisconosciuti, ha avuto la forza di non fare sconti a nessuno. E conclude su questa frase:
"E' bellissimo".
E, cliché o no, si esce col cuore pesante. E gran voglia di abbracciare una persona cara prima che sia troppo tardi.
Mario G