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Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, dice il saggio.
Sublime, ma quanto saremmo saggi, poi, sapendo d’aver davanti a noi solo venti, dieci ore e poi la fine inesorabile? Contempleremmo la bellezza della natura componendo un haiku o ci metteremmo a correre come tarantolati, alla disperata ricerca di conquistarci qualche minuto in più, costi quel che costi?
Però una fantascienza spettacolare mainstream è pur sempre la vocazione del Neozelandese, quindi ora a Justin Timberlake tocca correre per buona parte del nuovo In Time (di cui qui sopra e a lato vedete locandine internazionali, direi migliori di quella italiana in apertura); e con lui arranca (su tacchi altissimi!) anche la graziosa Amanda Seyfried, come vevete invece dalle scene riprodotte più sotto.
Ovvio, il protagonista inseguito da una minaccia, un’accusa ingiusta, dei cattivi minacciosi, è un ingrediente fondamentale per mantenere un livello di azione sufficientemente adrenalinico da rendere il piatto appetibile al giovane pubblico medio internazionale.
Ma va anche detto che ne In Time anche l’adrenalina corre veramente a mille, con questi personaggi perennemente sull’orlo del baratro per esaurimento del tempo-vita loro consentito; in continua caccia del “credito temporale” necessario per sopravvivere un altro giorno, un’altra ora: una società distopica quanto mai, in cui il tempo è l’unico valore, denaro, ricchezza universale: a 25 anni si smette d’invecchiare ma si vive ancora per un solo anno, a meno che lavoro, guadagno, speculazioni, o anche furto e omicidio per i più disperati non contribuiscano ad allontanare la spada di Damocle dell’orologio biologico che tutti continuano a guardare sul proprio polso (come nell’inquadratura qui a destra), il cui count down decreta irrevocabilmente lo spegimento dell’individuo giunto allo “0 time”.
Naturalmente, però, il rigore del sistema non garantisce un pari livello di giustizia sociale rispetto al mondo cui siamo abituati (rassegnati?), anzi proprio qui s’appunta il coté più interessante e “politico” del film: una ristretta élite di ricchi vive quasi in eterno, disponendo di riserve, capitali, banche quasi inesauribili di quel prezioso tempo la cui programmata scarsità impone a schiere di “pezzenti” dei ghetti una fine prematura e drammatica.
E sull'analisi politico economica del darwinismo sociale metaforizzato dal film, in relazione al momento attuale e alla crescente percezione che si va diffondendo d'esser tutti pedine di imperscrutabili poteri finanziari che tengono per le palle anche i potenti della politica, è difficile andare oltre l'acuta analisi del filosofo Alberto G. Biuso che leggete sul suo sito (sotto il geniale titolo "Tempo Debito"), quindi direttamente ad essa vi rimandiamo.
L'idea di base del film, semplice quanto obiettivamente originale (anche se con qualche debito col classico La fuga di Logan del 1976), è ancora una volta dickiana senza provenire direttamente da alcun romanzo del grande visionario e consente a Niccol di prendere di petto due ossessioni, direi proprio LE due fondamentali, della nostra società affluentee globalizzata post-tutto: quella dell’eterna giovinezza (per tutta la vita con l’aspetto di venticinquenni: nel film ci sono scene gustosissime con donne cinquantenni pressoché identiche alle loro figlie!) e quella del costante inseguimento di un tempo che non ci basta mai; vissuto freneticamente, sprecato senza peraltro arrivare mai altrove, senza conquistare alcuna vittoria duratura sul suo inevitabile trascorrere.
Concetto filosofico, quasi leopardiano, che il film tocca pur senza mai farsi concettoso, mantenendo ben saldo l’indispensabile piglio action (persino con qualche svisata jamesbondiana un pelo troppo spinta verso la strizzatina d’occhio comica), a ricordarci che pur sempre in un prodotto major ci troviamo. Comunque, va detto che la scena della morte della madre del protagonista, al termine di una corsa notturna a perdifiato madre-verso-figlio nel ghetto deserto, pur trovandosi poco dopo l’inizio del film colpisce con una drammaticità notevole.
Non è un capolavoro, In Time, né apre nuovi sentieri per il cinema fantastico, in cui non farà storia per stile o innovazione linguistica. Nè per il finale, non memorabile esempio del sopracitato jamesbondismo (o bonnie&clydismo da Ocean's Eleven, per intenderci) E tuttavia ci tiene avvinti al suo ritmo teso per quasi due ore senza un cedimento, bilanciando satira anticapitalistica da “Occupy Wall Street” all’azione anfetaminica.
Accompagnandosi a una curiosa colonna sonora soft-latineggiante, in cui gli attenti ascoltatori di rock alternativo riconosceranno (nel ballo fra i protagonisti durante il ricevimento a casa del padre di lei) una versione lounge-caraibica di In A Manner Of Speaking degli indimenticati Tuxedo Moon (da Holy Wars). E anche queste son piccole gioie.
Da vedere (i cardiopatici con tonico a portata).
Mario G