La recensione di Posthuman sul film Cigno Nero - Black Swan di Darren Aronofsky l'avevate già letta a firma di Walter in occasione della presentazione del film al Festival di Venezia 2010 (e la potete ripassare QUI).
Ora finalmente il film arriva anche al pubblico italiano (in sala dal 18 febbraio, vedete la locandina italiana in apertura e altri poster internazionali nelle illustrazioni ai lati di quest'articolo), e vincitore (su ben 5 nomination) dell'Oscar 2011 per la migliore attrice protagonista (Natalie Portman sbaraglia persino Nicole Kidman "dei dolori" di Rabbit Hole), che riporta l'alloro al regista che già l'aveva guadagnato col precedente The Wrestler.
Mica bruscolini, insomma: anche se - a quanto pare - ancora non bastano a comporre le divergenze di opinioni che il film genera: abbiamo sentito spettatori e giornalisti al termine delle proiezioni lamentare un eccesso di melodramma, di "peso", addirittura definirlo "imbarazzante, fin ridicolo".
Personalmente, concordo con Walter: anche a mio parere questa durezza è eccessiva, per quanto si possa concordare che non è facile ripetere l'operazione Wrestler, benché (o forse proprio) con una materia sostanzialmente simile (un'artista e il suo mondo di spettacolo, riflesso di una vita che va in frantumi).
Certo, là c'era la geniata di trasformare una materia squallidissima (il becero mondo muscolare del wrestling, l'America da strapaese) in metafora d'auteur di una sconfitta esistenziale.
Qua abbiamo l'austero mondo del teatro e del balletto classico, che fa autorialità già da sé, così riducendo implictamente (o apparentemente) il contributo della visione del regista: anzi, rischia di risultare persino un po' stucchevole, con la metafora cigno-ballerina, che il dramma esistenziale dell'artista stavolta scivoli appunto nel mélo per "eccesso di cornice a stucco".
Eppure, l'impianto psicanalitico freudiano è quasi hitchockiano: protagonista repressa, madre incombente, sessualità negata (l'epoca poi ci consente l'apertura saffica di cui s'è tanto parlato), frustrazioni a man bassa; su tutto, la crudele paura di non farcela, di "non esser perfetta", che ci favorisce il collegamento fra il passaggio della giovane ballerina all'affermazione come star e quello (parallelo) della ragazza verso una sofferta maturità esistenziale.
Forse "troppo hithcockiano?
Nella sua messa in scena della discesa agli inferi della giovane étoile, Aronofsky sceglie una succulenta strada lynchiana: la macchina da presa ci mostra sempre più spesso, man mano che il dramma avanza, scene che iniziano realistiche e in cui poi accade qualcosa di surreale e inquietante: la protagonista e il suo riflesso allo specchio non si corrispondono, all'improvviso l'immagine della disinibita rivale sbuca come una persecuzione dal buio, il corpo di Nina rivela sempre più profonde e imbarazzanti ferite sanguinanti (graffi sulla schiena, sulle mani, unghie spezzate)... E noi veniamo lasciati nel dubbio se ciò che vediamo accada realmente o se sia solo una proiezione dell'inconscio tormentato della ballerina.
Però Aronofsky non vuole sovvertire completamente la percezione della realtà, ormai griffe riconosciuta del David Lynch maturo: si accontenta di farci osservare dall'interno i tortuosi meandri di una mente in bilico. Intorno a lei la realtà continua ad mantenere le forme a noi note: la (comunque non svelabile) scena finale s'incarica di chiarirci dove stavano le alterazioni e quale incubo è appena finito. Tragicamente, proprio come accade nel romanticissimo balletto al centro della vicenda.
Ed è forse proprio in questo parallelismo che sfiora un che di manierismo e di prevedibilità un film che comunque rimane una festa per gli occhi, forte di ottime interpretazioni: della candidata Portman (già insignita di Golden Globe e Bafta per l'interpretazione) e del brusco coreografo Cassel (accanto alla protagonista nella foto qui a sinistra); dell'isterica mamma Hershey e della sexy rivale Mila Kunis (a sua volta premio Mastroianni a Venezia 2010), come della non meno sulfurea ex-étoile Wynona Rider.Del resto, c'è chi ha fatto del manierismo della macchina da presa la propria griffe stilistica, come ad esempio Brian De Palma (sarà l'hitchcockismo abbondante che me lo fa pensare?) e oggi è considerato un auteur di primo piano del cinema americano, in qualche modo pre-tarantiniano. Dal canto suo, Aronofsky non ci fa girar la testa coi carrelli circolari, ma in fatto di specchi e di riflessi multipli in scena non si nega nulla!
Come sapete, siamo dei fan di Aronofsky, che abbiamo difeso anche quando il suo L'Albero della Vita sembrava il San Sebastiano dei sarcasmi critici. Black Swan forse non sazierà tutti i palati, come sorprese The Wrestler proprio dopo lo sfortunato The Fountain. Ma è sicuramente una pellicola da vedere per decidere a ragion veduta da che parte schierarsi.
E perché, anche se si scegliesse di appuntargli qualche critica, è sempre un grande psycho noir teatrale d'alta scuola. Avercene...
Mario G