Vorrei parlare oggi di post-umano, partendo da due opere lontane tra loro: "Casa di bambola" di Ibsen e gli scatti fotografici dell'artista piacentino Roberto Dassoni che ruotano intorno alla bambola: "Jenifer". Ma prima abbiamo bisogno di scomodare Nietzsche, Darwin e Freud e una femminista americana, Donna Haraway. Procediamo con ordine.
Nell'ipotetica insuperabile polarità umano/non-umano, si aggira l'idea del post umano. Come faccio ad affermarlo? Semplice: nel tentativo di tracciare un confine tra le due nozioni, un confine marcato intendo, un confine che ci guidi alla definizione dell'idea dell'umano, ci accorgiamo che l'idea stessa sfugge, si dinamizza.
La storicizzazione dell'idea dell'umano, la sua capacità di essere legata a tutto quello che accade nella storia degli umani, la cui "media" astratta di caratteristiche ne dipingerebbe il carattere, ci mette in guardia dal fornire una definizione che presuma di reggere allo scorrere del tempo.
In altri termini si può parlare di qualcosa che sia "l'umano" se siamo in grado di darne una definizione che non pretenda di essere a-storica e a-temporale. Se fosse possibile una geometria dell'umano e ci fossero assiomi che ne delimitassero le fondamenta potremmo allegramente avventurarci nell'esporre i nostri teoremi di cosa l'umano sia e di cosa il non-umano non sia. Ma allo stato attuale delle cose questa operazione è fallita, in favore di un pellegrinaggio esplorativo delle possibilità. Cerchiamo di capire perchè.
In molti contesti, la differenza tra umano e non-umano è stata tracciata con il cielo, sostituendo la dicotomia umano/non-umano con quella più familiare di umano/divino. La crisi del divino o l'esistenza di correnti di pensiero che ne minassero il dualismo ha portato a cercare altrove il nostro confine (tra tutti leggiamo Nietzche "Umano, troppo umano").
Per quanto possa essere rassicurante che tutto quello che accade sulla terra sia umano, potendone in parte individuare cronache e logiche, appena il confine è superato quello che succede dall'altra parte è mistero puro. Il divino fallendo la propria identificazione, il proprio riconoscimento, nega come conseguenza la sua alterità: l'umano. Se non si può dire chiaramente cosa è divino, allora non si può nemmeno dedurre per sottrazione cosa è umano. Dunque ha più senso cercare differenziazioni tra l'umano di cui abbiamo "collezioni" di elementi empirici. Ecco perchè dopo gli approcci metafisici, l'approccio "biologico" è stato lo sbocco naturale di questa riflessione. Dunque non più umano/divino, ma umano/animale. L'animale è umano? Cosa ci distingue da loro? L'anima? In che relazione è l'uomo con l'animale? Se il divino li aveva separati (l'uomo ha ricevuto l'anima, l'animale no), sarà Darwin a rimettere le cose insieme con la sua famosa teoria dell'evoluzione, riallineando in maniera causale la trasformazione della scimmia in uomo.
In maniera più contemporanea la dicotomia umano/non umano si trasforma in vivente/non-vivente, seppure anche qui con il tempo la microbiologia ha cominciato a svelare l'intima correlazione tra le due cose. Più ci si è guardati intorno all'uomo per cercarne il confine con il non-uomo, l'orizzonte naturale in cui definirne l'esistenza, e meno siamo riusciti a metterlo a fuoco. Era inevitabile che questo sguardo verso "l'esterno" o "il fuori" dall'uomo, dovesse presto essere puntato nel "dentro", cioè nella psicologia, nei segreti invisibili dell'uomo senza anima o dell'animale senziente. Cosa sente? Cosa pensa? Questi pensieri sono caratteristici della specie o semplici comportamenti regolatori (etologia)?
L'orizzonte dell'umano precipitato nel soggetto verrà poi spersonalizzato ancora e precipitato nel gruppo grazie agli studi antropologici e sociologici. Ma nonostante tutto la definizione dell'umano sfugge.
Una definizione che tenga conto dell'umano è più che altro un criterio di "movimento" della linea di confine, una riconquista geografica ed epistemica che l'umano fa di continuo con il suo antagonista: il non-umano. L'umano dopo aver inglobato Dio, il mondo animale, minerale, psicologico, sociologico come può ancora configurarsi come antitetico a qualcosa? Perfino le differenziazioni di genere si sono attenuate con lo scorrere della storia.
In passato la discriminazione di genere distingueva "l'umano" in classi "maschile/femminile"... ma questa distinzione è andata cambiando in favore di una riformulazione dell'idea di genere, il genere non è altro che una declinazione dell'umano. Quindi una donna ha tutti gli stessi diritti e doveri di un uomo (quindi non costola adamitica o sotto-specie dell'umano). La polarità uomo-donna è esplosa in una moltiplicazione di identità (transgender, emo). L'umano ha forse vinto? Il non-umano scomparso? Non è questa una naturale conseguenza della crisi dei dualismi?
Eppure il tema riesce ancora a stupire noi contemporanei, quando all'improvviso ci confrontiamo con nozioni come: il robot (intelligente), il cyborg, il manichino e la bambola. Pur non avendo chiaro l'orizzonte dove finisce l'umano (il non umano può essere semplicemente il nulla, o se lo guardiamo con gli occhi di un fisico l'anti-materia), saltano agli occhi alcune trasformazioni e alcune parentele.
Come è possibile che possiamo considerare qualcosa prodotto dall'uomo stesso come non-umano? L'intelligenza artificiale o l'intelligenza naturale sono sotto la stessa coperta dell'umano? Se sì, un robot che pensa ha gli stessi diritti di un uomo o posso distruggerlo e schiavizzarlo a mio piacimento? La nozione di umano/non-umano è forse legata nel nostro tempo a naturale/artificiale? Può l'etica creare un orizzonte fondativo dell'essere umano?
Come vedete l'unico modo per affrontare l'argomento è parlare di una nozione quella dell'umano, che nel momento in cui la indico devo già sapere che muterà. Per questo è molto più agevole indicare l'umano con il termine post-umano. Per indicare la consapevolezza di una nozione che sta di continuo cambiando pelle mentre scriviamo è già post prima ancora di enunciarla.
Ma cosa sono quindi questi elementi (manichini, bambole, robot - vedi anche l'articolo di Mario Gazzola sui manichini) che popolano l'arte e trasmettono i conflitti concettuali del nostro tempo? Perchè l'arte parla di loro e non "semplicemente" dell'uomo o dell'umano?
Se giocano un ruolo "semantico" di definizione dell'umano lo giocano grazie alla loro capacità di creare uno sguardo, un segno-orizzonte con cui orientarsi.
Il robot, il cyborg, il manichino e la bambola (ma anche il vampiro, lo zombie o il licantropo) sono come segnali stradali nell'orizzonte dell'umano. Grazie ad essi sappiamo quando stiamo abbandonando la nozione dell'umano per andare verso qualcos'altro.
Grazie ad essi ci aggiriamo nei territori dell'umano/non-umano.
Nella "Casa di Bambola" di Ibsen la protagonista appare come una donna capricciosa, futile e senza un barlume di intelligenza. Non una donna, ma un "oggetto da arredamento" una bambola, che deve assistere immobile ai rituali maschili borghesi ornata da pizzi e merletti. Il testo mette a fuoco il matrimonio nell'epoca vittoriana, i ruoli sessisti che ridicolizzano la condizione umana. La donna con uno scatto di consapevolezza deve riappropriarsi della propria dignità, smettendo di comportarsi da bambola, da giocattolo rotto e futile, da oggetto.
Il tessuto dell'umano è ridefinito, ridefinendo le differenze di genere e di ruolo della donna nella società.
Per raccontare questo riscatto Ibsen utilizza il concetto di "bambola" per mostrare con chiarezza cosa sia in realtà il personaggio dietro le sembianze umane. Qui la forza della metafora genera immediatamente un senso di posizionamento dell'orizzonte. Il nostro personaggio deve allontanarsi dalla bambola per andare verso la condizione umana di donna. Nora si libera del suo "essere" bambola, cioè l'umano che si scrolla di dosso il non-umano nella sua dimensione minerale. Ecco come l'arte produce "segni" (la bambola) che possono orientare l'orizzonte semantico dell'uomo.
Nel nostro secolo la donna è a tutti gli effetti uno dei laboratori più prolifici del post-umano, il luogo del cambiamento. Basta leggere per esempio le teorie femministe di Donna Haraway con il suo "Manifesto Cyborg" che scardina le differenze di genere in favore di un concetto più ampio di umano. Guarda caso chiama in causa l'idea di cyborg che mette in crisi l'idea di genere perchè ibrida il naturale con l'artificiale (leggi anche A. G. Biuso "La mente temporale" - Corpo, mondo, artificio").
Ma è solo l'inizio, negli ultimi anni le istanze di cambiamento "di questa identità dell'umano" e i suoi laboratori di definizione si sono moltiplicati. Clonazione, intelligenza artificiale, meccanica quantistica, manipolazione del DNA, hanno aperto le porte ad una riconciliazione più ampia delle differenze (moltiplicandole) somatiche e psichiche in generale. Cortocircuitando il naturale con l'artificiale il vivente con l'inanimato e mandando in tilt le distinzioni a cui la storia dell'umano ci aveva abituati.
La possibilità di vivere una catena di vite, raccontando al nostro clone la storia della nostra vita e proseguendo a vivere nella sua memoria (come per esempio nel film "Moon" di Duncan Jones un clone si ribella alla sua vita eterna ma finta fatta della continua riproposizione del quotidiano, di clone in clone), è effettivamente una rottura della gabbia biologica-temporale dell'umano?
Se nemmeno la morte è un confine duraturo, come può esserlo la nostra nozione di umano?
Jenifer non è altro che una bambola che l'artista strappa alla morte, la toglie dalla spazzatura per universalizzarla nella sua fotografia vintage "lomografica".
Jenifer è contemporaneamente un'affermazione di ciò che oggi è l'umano e ciò che non lo è. Un semplice cambiamento di luce e tempo nello spazio fotografico diventano forze vitali che animano la bambola, rendendola umana. Ma malgrado questo la sua fisicità, il corpo di plastica della bambola, sono incastonate nello scatto a ricordarci la sua dimensione non umana, la sua appartenenza ad un universo muto, inanimato, meccanico e senza coscienza. Jenifer è previsione del suo stesso destino (in quanto bambola-oggetto è una costante della composizione fotografica). Questa sua capacità di rappresentare in anticipo la sua presenza nello scatto successivo è la sua qualità oracolare. La fotografia di Jenifer (che apre alle sue emozioni) è la nozione dell'umano e la bambola è lo spettro di quella condizione.
Potendo "significare" con la luce e il tempo della fotografia la sua sfera emozionale, pur nella sua immutabilità di "significante", Jenifer ci restituisce una nozione fresca di cosa è il post-umano.
E un orientamento per non perdersi nel labirinto del non-umano.