Prima di formulare un giudizio di (de)merito sull'ultimo sforzo produttivo di Dario Argento, bisognerebbe porsi alcune questioni di buon senso (critico, umano e storiografico) non tanto sul suo cinema, quanto su quelle circostanze che, abbastanza regolarmente, spingono un uomo di spettacolo a restare negli annali nonostante e a dispetto del proprio inequivocabile declino.
Il che non viene premesso per anticipare eventuali stroncature né per perorare cause cinematografiche oltre ogni ragionevole dubbio, ma soltanto per spronare il lettore a domandarsi quale ruolo rivestano nella settima arte, per esempio, le ultime pellicole di Bela Lugosi, quelle realizzate sotto l'ala di Ed Wood, se siano cose disdicevoli e vituperabili, o viceversa opere minori ma degne della giusta attenzione.
Oppure cosa si possa dire di Francis Ford Coppola dopo l'esperimento vampiresco di Twixt (2011), che ricicla il concetto di gotico (più che il gotico in sé) inanellando alcune suggestioni tra loro azzeccate e saccheggiandone altre dalla moda Stephenie Meyer.Secondo chi scrive, benché ci si muova in un ambito assai delicato, non è importante quanto “bravo” sia un Coppola o uno Scorsese (intendendo con tale termine la capacità di mantenere una certa simmetria, una lucidità pratica e teorica nel dirigere un film), bensì quanto coerenti possano essere l'uno e l'altro in relazione alla propria sensibilità cinematografica. Scorsese lo è poco, perché ogni sua nuova pellicola è il tentativo di imitare qualcos'altro, Coppola lo è moltissimo, essendosene egli sempre fregato di ogni conformità al suo ambito professionale come a qualunque retroterra culturale condiviso. Il primo annaspa, ricalcando e ricopiando, il secondo improvvisa, facendo della sproporzione un marchio d'autore.
Da un lato la prevedibilità più ortodossa, dall'altro il ghiribizzo più sorprendente. E non è una casualità che il maestro del brivido all'italiana abbia scelto il medesimo substrato letterario del regista di Detroit, rendendo fatidico il confronto con “l'originale” principe delle tenebre, eppure scompaginandone gli addendi fino a variarne i risultati.
Dario Argento ripensa il Dracula di Stoker, e lo fa aggiungendo pochissimo alle precedenti e innumerevoli versioni, ma acuendo piuttosto una contraddittoria ma personale verve poetica, che da La sindrome di Stendhal (1996) in poi l'ha reso regista per molti versi deludente, ma per altri speziato di un fascino indescrivibile e nondimeno necessario.
Anzi, si potrebbe essere più precisi, ed affermare che del Bram Stoker's Dracula non resta pressoché nulla di stockeriano, né di coppoliano, ma semmai qualcosa, un carattere, una scelta registica, una infatuazione eccentrica che si rifà alla Hammer tra il calligrafico e il pop, per divenire poi gioiello quasi testamentario di un'epoca tramontata.
Coppola rigurgitava la Meyer per digerire Twixt, Argento smonta e decostruisce la saga della nota casa britannica per arrangiare il proprio discendente di Vlad Tepes. La sua carriera è una parabola curvilinea entrata ormai in fase decadente, ma si tratta di un momento ellenistico e meraviglioso, che raggiunge l'acme di una bizzarria orgiastica e sfrenata, ormai saldamente collocata oltre ogni pudibonda moralità. Merito non esclusivo del 3D, che esplora lo spazio flettendone l'altrimenti rigida struttura, ma senza accludere nulla di particolare all'idea del genere che Argento vuole comunicare.
Dracula 3D (locandina in apertura) è interessante perché sanamente sgangherato, rinuncia alla logica per abbandonarsi all'affabulazione, scardina la sintassi per divenire caos narrativo. D'altronde non poteva essere altrimenti, e forse è proprio per questo che il regista si è affidato alle incompetenti mani di Stefano Piani e Antonio Tentori (sceneggiatori, rispettivamente, di alcuni orribili segmenti della serie TV Sei passi nel giallo, nonché degli ultimi film di Bruno Mattei) e a quelle rustiche e contadinesche di Franco e Giovanni Paolucci, produttori appunto di chicche straight-to-video quali L'isola dei morti viventi (2006) e Zombi: la creazione (2007).
Ma ne sono davvero punti a favore? Non proprio, perché il pregio di una pellicola non sta soltanto nelle sue maestranze, ma nella conduzione, e quella di Argento, come sempre o quasi, è sublime nell'arte di arrabattarsi, impercettibile nello sfrecciare tra brutture e stranezze al limite dell'assurdo. Ecco, a doverlo definire in poche, essenziali righe, Dracula è un mélange discontinuo di trovate allucinate e inesplicabili cadute di tono, inconsapevole vittima e al contempo complice connivente di un assetto produttivo capace di deliranti accostamenti.
Il grande affresco estetico dato da fotografia e scenografia (rimandiamo all'IMDB per il dipartimento artistico) non trova degno complemento a livello di scrittura, e quanto poteva rivelarsi non un capolavoro di equilibrio ma almeno un film dalla dignitosa ossatura, si volge presto nella perla arzigogolata e barocca del fu un grande regista.
Jonathan Harker (Unax Ugalde) si reca nel fantomatico paese di Pressburg (dove si troverà?), ospitato dal conte Dracula (un Thomas Kretschmann abbigliato con lo stesso cappotto di Nosferatu, sopra a destra) non per siglare un affare immobiliare, ma per sistemarne la biblioteca. Si tratta soltanto di un tranello perché il nobile vampiro attiri a sé la bellissima Mina (Marta Gastini), fidanzata e promessa sposa di Harker, di cui ha saputo dell'esistenza non si capisce né come né perché. Presto Harker scompare misteriosamente, violentissimi omicidi hanno luogo in città, qualcuno comincia a indagare e in capo a qualche giorno il professor Van Helsing (Rutger Hauer, sopra con Asia Argento e qui a sinistra con museruola, NdR) sarà chiamato a decretare la celeberrima sentenza: a Pressburg ci sono i vampiri.
L'inizio non è male, e si regge bene anche grazie alle non poche scene di nudo e di sesso (le spose di Dracula sono sostituite dalla “nipote” appena vampirizzata, Miriam Giovanelli), presto però ci si ingarbuglia in un bric-à-brac senza troppo senso. Ognuno fa cose che non dovrebbe fare, c'è chi sparisce, chi ritorna, chi resuscita e addirittura chi appare all'improvviso risolvendo tutti gli enigmi.
Non è più Dracula, quello che stiamo guardando, ma un Hammer Film assemblato alla bottega dell'usato, dove si sfrutta il brand stokeriano in ciò che è e non per ciò che dice. I personaggi non stabiliscono nessuna relazione credibile tra loro, sono tali in quanto immortalati dalla penna dell'arcinoto scrittore inglese, e come tali destinati ad essere riconosciuti facilmente da qualunque tipologia di pubblico.
Renfield (Giovanni Franzoni) bighellona senza meta per le contrade, mentre il professor Van Helsing entra in sordina, chiamato dal prete del villaggio, e uccide tutti con una cadenza, una sicurezza e una velocità da far invidia a Pecos Bill: quando viene attaccato dalla vampira amante del conte, l'uomo si volta verso di lei impalandola con un gigantesco crocifisso, tutto con una rapidità che quasi non conferisce tempo all'occhio. Non ci sono né lotta né ritmo.
Van Helsing si scontra con i famigli di Dracula uscendone sempre vincente e senza aver nemmeno bisogno di lottare: alza un braccio e qualcuno muore, a una scoreggia segue improvvisamente una defenestrazione, a un rutto un proiettile nel cuore. È un super-eroe dalla mano lesta e dalla risposta pronta. Asia Argento (Lucy, in ben tre foto di questa pagina, NdR) dal canto suo recita come un'albanese appena sbarcata in Italia, regalandoci la sua interpretazione più divertente anche se del tutto fuori luogo per una brava ragazza dell'epoca vittoriana.
Ma è Dracula a rappresentare lo spread: si trasforma in qualsiasi cosa, da lupo a insetto, addirittura a mantide religiosa (o cavalletta?) che senza alcun motivo, in una scena slegata da qualsiasi consequenzialità, sventra con una zampa gigante l'imbelle padre di Lucy. Per non parlare del momento clou della pellicola, in cui l'aristocratico vampiro sventa una defezione tra i suoi gregari, avvinazzati in una taverna di paese (tra questi Riccardo Cicogna, caratterista tra i più geniali benché misconosciuti del cinema italiano), staccandone gole e recidendone teste, sbudellando, sviscerando e stappando giugulari come bottiglie di vino rosso.
Ci sono registi che pur mantenendosi fedeli a una linea estetica più o meno ricorrente, fatta di rimandi, connessioni e affusolate giunture, producono film per un pubblico ormai uso ai loro vezzi e capricci, e altri ancora, al contrario, che subordinano le esigenze dello spettatore alla propria emotività, ponendo in secondo piano qualsiasi considerazione critica. E Argento, almeno su questo, si conferma visivamente il più raffinato regista horror mondiale.
La terza madre (2007), film “televisivo” odiato ben più del necessario, era un tripudio di intuizioni di cui nessuno si è accorto, troppo stupidamente assoggettato alle regole di buona sceneggiatura per rendersi conto che la scrittura filmica, nelle mani di certuni maestri, non ha mai la stessa importanza della resa in immagini. La ragazza squartata dai demoni, e strangolata con le sue stesse viscere, non ha paragoni né nel recente cinema del terrore né negli archivi dell'intera produzione internazionale; e l'assassinio di Udo Kier, con la sua sintassi farneticante e una costruzione della suspense che ha dell'allucinato, diviene metafora di un amore assoluto e primordiale per l'orrore. E come non citare i due episodi di Masters of Horror, Jenifer e Pelts, rispettivamente? Non soltanto i migliori mediometraggi della serie, ma due capolavori tra i più riusciti forse in tutto il panorama televisivo americano e non.
Dracula 3D non è cinema, ma immaginazione, curiosità, bizzarria, un flusso di visioni, esplorate e dilatate dalle sue morbide luci, sedotte garbatamente dagli effetti stereoscopici, che ci insegnano che ormai il senso del cinema (di questo cinema) ha inesorabilmente perduto i suoi schemi antropocentrici, e che dalle vestigia delle sue fantasmagorie (ri)nasce per fortuna la fenice della stravaganza.
Marco Marchetti