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Nel corso dell'ultimo anno abbiamo assistito nel mondo almeno a cinque terremoti di proporzioni catastrofiche, risvegli di vulcani con relative nubi "simboliche", oltre a svariate piaghe autoinflitte dalla stupidità umana a colpi di spargimenti di idrocarburi (e non solo), tanto per citare solo i fenomeni "da apertura di tg serale", avvisaglie di quello che sembra tanto lo scossone definitivo della natura nei confronti della stolta e rapace "razza padrona" del creato.
Gli autori, come rabdomanti, queste cose le "sentono": considerazione banale se volete, che risponde alla domanda che mi ponevo qualche giorno fa, riflettendo sull'infoltirsi della schiera di film definibili "apocalittici d'autore", a dispetto del pressoché costante insuccesso che il pubblico mondiale riserva a queste opere ibride fra 'genere' e aspirazioni filosofiche 'alte'.
Mi riferisco - prima che al The Road di John Hillcoat qui protagonista, finalmente nelle sale italiane dal 28 maggio - ai suoi illustri precursori, come Il Tempo dei Lupi di Michael Haneke, da noi uscito in sordina e bollato perlopiù come film fra i meno interessanti del tagliente regista austriaco; oppure al toccante Carriers dei fratelli Pastor, di cui ripassate al link relativo al Science+Fiction di Trieste e a tutt'oggi ignorato dalla distribuzione italiana.
Non so come sia andato al botteghino il più recente La Città Verrà Distrutta all'Alba, remake di un Romero 'virale' del '73, ma di certo la sua fattura più convenzionale e action secondo i canoni del fanta horror attuale lo rendono sicuramente più maneggevole per il pubblico medio che ha amato i 28 Giorni/Settimane Dopo o persino l'inutile Doomsday, catalogo di cliché da Mad Max alle Fughe da NY/LA carpenteriane.
Quel che è certo è che con The Road siamo lontanissimi da quei modelli, per esplicita intenzione dichiarata dal regista John Hillcoat, che ha voluto percorrere la strada in salita di un'autorialità necessaria a mantenersi fedele all'origine letteraria del plot, ossia l'omonimo romanzo di Cormac McCarthy, così presente nei dialoghi filosofici, quasi biblici del film.
Basti ricordare frasi come quella con cui il padre-Viggo Mortensen descrive il senso che ha per lui continuare a sopravvivere per garantire una speranza di vita al figlio decenne (il vero senso della storia): "Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato". Oppure l'angosciata domanda che il (fin troppo) angelico Figlio-Kodi Smit-Mc Phee (notevole giovane attore debuttante) rivolge al padre dopo aver assistito a un truce episodio di cannibalismo fra uomini regrediti alla più nera barbarie, da noi riportata in apertura: "Noi non mangeremo mai nessuno, vero?", o "Siamo ancora noi i buoni? ".
Forse, dicevo, gli autori sentono l'odore gelido di un'incombente, potenzialmente non lontana fine del mondo, della "civiltà umana" come siamo soliti pensarla. La sentiamo e la esprimiamo (ognuno a modo proprio) in queste trame post-apocalittiche crepuscolari, in ambientazioni metropolitane buie e mefitiche, la cui cupezza ci aliena i favori del grande pubblico, che in USA pare abbia decretato il flop per il capolavoro di Hillcoat (diciamolo senza giri di parole, ché lo è e basta). Il quale, come sapete, per questo ha rischiato a lungo di essere un altro capolavoro invisibile da noi, salvato credo solo dal ricco cast (Mortensen, Charlize Theron, Robert Duvall, Guy Pearce) e dalla memoria del successo dei Coen con Non è un Paese per Vecchi (sempre da McCarthy).
L'Odissea degli anonimi Padre e Figlio, così poco spettacolare anche nei momenti più drammatici e pericolosi, in cui spesso la violenza (pure molto presente) rimane quasi fuori campo, facendoci pensare a un altro grande libro sulla fine-del-mondo, Il Paese delle Ultime Cose di Paul Auster (affresco tendente all'astratto ispirato alla guerra jugoslava); le sue scene così plumbee nella loro monocromia grigio-cenere, non sfuocano ma arricchiscono una poesia che taglia come lama fra rovine fumanti e neoselvaggi ottenebrati, immensa nello sguardo smarrito eppure resistente di Mortensen di fronte alle domande ultime sulla vita e sul suo senso.
Così carico di esilissima, incrollabile speranza nell'umanità rappresentata dal Bambino, da non abbandonare il sentiero della civiltà neppure in mezzo all'orrore delle bande selvagge e antropofaghe e alla spietatezza del cane-mangia-cane.
Una forza rara nel cinema (e credo anche nella letteratura) di oggi, a dispetto delle molte banalità leggibili come sempre sulla stampa (da cui si distaccano invece le testae di genere, come Nocturno o il Corriere della Fantascienza).
Ci sarebbe molto da dire su questo film, sulle molte perizie tecniche con cui è stata data forma alla sua pur linearissima trama: la fotografia quasi monocroma, la recitazione contratta e dolente di tutti, le scenografie e le location trovate in zone colpite da reali cataclismi, il funzionante accompagnamento scheletrico di piano e archi vergato da Nick Cave (amico e collaboratore di vecchia data di Hillcoat, che gli ha girato molti video e il recente The Proposition) col fido Warren Ellis.
Ma, come sempre quando l'opera tocca profondamente, risulta più difficile (e quasi 'indecoroso') smontarla nelle sue componenti. Ci sarebbe moltissimo da dire ma... più il film è bello più sembra difficile, addirittura inutile. Cosa vi racconto, una trama lineare come la strada su cui si svolge, di cui avete già letto da mesi ai vari link che vi ho disseminato qua in giro e oltre? Ma no, vedete da voi, vagate in silenzio come nomadi per le lande disperate del mondo-alla fine-del mondo e trovate le vostre risposte.
Commuovetevi, perché se di un film oggi si può ancora dire l'abusata espressione "ti commuove", beh è questo. E valutate da voi se la scintilla di luce che balugina nel finale arriva troppo "alla svelta" dopo che la tragedia si è compiuta o se questa è solo una sensazione legata alla necessità di rispettare determinati tempi per la durata del film...
Noi chiudiamo usando come epigrafe al film la frase di Mortensen-Padre: "Quando non ho altro, cerco di sognare i sogni con l'immaginazione di un bambino".
Mario G